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testo a cura di Claudio Del Lungo
“Il pittore francese Paul Delaroche, nella più insigne forse delle sue opere, il famoso Hemicylce of the Ecole des Beaux-Arts, che è nell’Accademia di belle arti a Parigi, riprendendo e imitando liberamente il pensiero di Raffaello, nella Scuola d’Atene, ha inteso di rappresentare e disporre in certi gruppi gerarchici gli artisti principali del Rinascimento italiano ed europeo.
A destra del riguardante attira lo sguardo un gruppo, forse il più riuscito di tutta la composizione. Sul davanti Michelangelo siede sopra un frammento di basso rilievo antico e guarda triste dinnanzi a sè, voltando la spalle agli altri. Dietro di lui, elegante figura giovanile, si leva Raffaello d’Urbino, e lievemente del capo sovrasta a tutti gli altri. Ma guardando bene, si capisce che il protagonista vero di questo gruppo non è nè Raffaello nè Michelangelo. E’ invece un bellissimo uomo sontuosamente (di porpora ndr) vestito, , con una ricca barba, col gesto largo e con quell’obbliquo atteggiamento dei diti della mano sinistra, proprio del pittore che discorre analiticamente dell’arte sua. E quest’uomo ha l’aria d’insegnare a tutti, e tutti hanno l’aria di ascoltarlo con rispetto. Non è il dottore ascetico e austero del medio-evo; è piuttosto, all’aspetto, uno di quei tipi di gentiluomini culti e compiti che Baldassarre Castiglione metteva nei dotti e piacenti colloqui alla corte del duca e della duchessa d’Urbino. E tutti, vi ripeto, lo ascoltano. Lo ascolta attentamente frate Bartolomeo della Porta ritto vicino a lui e guardandolo colo volto serio e sereno; lo ascolta più lungi Hans Holbein col profilo teutonico e la chioma arruffata; lo ascolta con gli occhi intenti Alberto Durer nel suo sfarzoso abbigliamento signorile. Anche il Domenichino più d’ogni altro premuroso si accosta a lui per non perdere parola. Con l’orecchio è attentamente inclinato verso il maestro; ma nell’inquietudine del suo eclettismo bolognese si vede che egli erra cogli occhi tra Michelangelo e Raffaello.
Quest’uomo sedente o docente, tutti hanno ben ragione di ascoltarlo perchè egli è Leonardo da Vinci, grandissimo fra i grandi, l’uomo più portentoso del Rinascimento italiano, che di portenti ebbe così grande ricchezza.”
Così Enrico Panzacchi (1840 – 1904) poeta, critico d’arte, politico, critico musicale italiano, nonché oratore e prosatore, introduce la figura di Leonardo da Vinci in una Conferenza tenutasi a Firenze nel 1892 sulla “Vita Italiana nel Rinascimento” (Fratelli Treves Editori. Milano, 1918).
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“Grandissimi doni si veggono piovere dagl’influssi celesti ne’ corpi umani molte volte naturalmente, e soprannaturali talvolta strabocchevolmente accozzarsi in un corpo solo, bellezza, grazia, e virtù in una maniera, che dovunque si volge quel tale, ciascuna sua azione è tanto divina, che lasciandosi dietro tutti gli altri uomini, manifestamente si fa conoscere per cosa, com’ella è, largita da Dio e non acquistata per arte umana.
Questo lo videro gli uomini in Lionardo da Vinci, nel quale oltra la bellezza del corpo non lodata mai abbastanza, era la grazia più che infinita in qualunque sua azione; e tanta e sì fatta poi la virtù, che dovunque l’animo volse nelle cose difficili, con facilità le rendeva assolute (le risolveva). La forza in lui fu molta e congiunta con la destrezza, l’animo e ‘l valore sempre regio e magnanimo, e la fama del suo nome tanto s’allargò, che non solo nel suo tempo fu tenuto in pregio, ma pervenne ancora molto più ne’ posteri dopo la morte sua.”
Così invece Giorgio Vasari [1] nel suo “Delle vite de’ pittori, scultori et architettori” introduce la vita di Leonardo da Vinci.
Meglio non si poteva esprimere, anche se con parole arcaiche, la grandezza del genio di Vinci che ha saputo percorrere tutte le arti dell’epoca ed in più inventare oggetti ed avere idee che saranno poi sviluppate e realizzate nei quattro secoli successivi.
È difficile parlare di Leonardo da Vinci per tutto ciò che ha fatto, soprattutto se lo si deve concentrare in poche pagine. Il Vasari gli dedica 15 pagine del suo “Le vite“, le enciclopedie e i dizionari lo trattano in maniera più estesa di ogni altro artista, le opere didascaliche sono sempre incomplete, e non potrebbe essere altrimenti.
Leonardo nasce il 15 aprile 1452 ad Anchiano, una località di campagna nei pressi di Vinci a circa 40 km da Firenze e a circa 15 km da Empoli, nel 1452. Era figlio naturale di un notaio, Ser Piero da Vinci (1427-1507), e di una giovane contadina, Caterina di Piero del Vacca. Vive nella casa del padre che nel frattempo si era sposato con Albiera degli Amadori.
Messer Antonio da Vinci, nonno paterno di Leonardo scrive: “Nachue un mio nipote, figliuolo di ser Piero mio figliuolo, a dì 15 d’aprile, in sabato a ore 3 di notte. Ebbe nome Lionardo. Batezollo prete Piero di Bartolomeo da Vinci, Papino di Nanni Banti, Meo di Tonino, Piero di Malvolto, Nanni di Venzo, Arrigo di Giovanni tedesco, monna Lisa di Domenico di Brettone, monna Antonia di Giuliano, monna Niccolosa del Barna, monna Maria, figliola di Nanni di Venzo, monna Pippa di Previcone”.
Grazie quindi al nonno di Leonardo, che trascrisse la nascita in un libro notarile, conosciamo non solo il giorno (era un sabato), ma anche l’ora della nascita (le 3 di notte a quell’ora erano le 10 e 30 della sera in quanto le ore si contavano di nuovo dopo il vespro) ed alcuni altri particolari come il nome del prete che lo battezzò e perfino dei cinque padrini e delle cinque madrine che assistettero al battesimo.
Della madre però non si fa alcun cenno. Alcuni tentativi di ricostruzione dell’identità della donna stimano la sua nascita intorno al 1427 e la sua morte nel 1495 circa.
Caterina di Piero del Vacca era una donna di umili origini, era l’amante del Messer Piero da Vinci, ricco notaio di una famiglia di notai, che ha servito anche la famiglia Medici.
Caterina venne allontanata dalla famiglia e un anno dopo la nascita di Leonardo si sposò con il ceramista Antonio di Pietro del Vacca di Vinci, soprannominato “Accattabriga“, dal quale ebbe cinque figli.
Alcune ricerche recenti (studio dattiloscopico del 2006) sembrerebbero ipotizzare che Caterina potesse essere una schiava venuta dal Medio Oriente. Secondo Alessandro Vezzosi, direttore del Museo Leonardo da Vinci, sembra che Piero fosse proprietario di una schiava mediorientale chiamata Caterina, che ha dato alla luce un bambino di nome Leonardo. Questa tesi che Leonardo aveva sangue arabo è sostenuta anche dalla ricostruzione di una impronta. (vedi nota 1)
Fina da giovane Leonardo dimostrò interessi molteplici e grande intelligenza, ma senza costanza “perciocchè egli si mise a imparare molte cose; e, cominciate, poi l’abbandonava” (G.Vasari) Leonardo era quindi assetato di conoscere, sperimentare e subito provare qualcos’altro a tal punto che continuava a porre dubbi e richieste al suo maestro di allora, mettendolo in confusione e in difficoltà.
Suonava la lira, cantava mirabilmente, disegnava, faceva rilievi e dimostrava una ecletticità e una fame di conoscere le arti che un giorno, nel 1472, il padre portò alcuni disegni di Leonardo a Firenze ad Andrea del Verrocchio [2], maestro della bottega a quell’epoca più importante di Firenze e uno degli artisti più attivi alla corte di Lorenzo il Magnifico. Il Verrocchio si stupì “… e confortò ser Piero” dicendogli di portare il giovane Leonardo alla sua bottega.
La bottega del maestro Verrocchio ebbe come allievi artisti del calibro di Piero Perugino, Sandro Botticelli, Agnolo di Polo, Lorenzo di Credi, suo allievo prediletto, Domenico del Ghirlandaio, Francesco Botticini, Francesco di Simone Ferrucci da Fiesole e Bartolomeo della Gatta.
Il Verrocchio era un artista completo: pittore, scultore, architetto e orafo. il Maestro si accorse subito delle doti di Leonardo che si applicava in tutte le arti. Il Verrocchio presto lo impiegò nella pittura di personaggi secondari di suoi dipinti. Sembra che 1475, quando Leonardo aveva l’età di quindici anni, il Maestro lo volle per fargli colorare un angelo su di una tavola che rappresentava San Giovanni mentre battezza Gesù. Giorgio Vasari scrive che questo angelo “... era molto meglio che l’altre cose. Il che fu cagione che Andrea si risolvette a non voler toccare più pennelli, poichè Lionardo così giovanetto in quell’arte si era portato molto meglio di lui” L’opera è esposta alla Galleria degli Uffizi e la critica è concorde nel riconoscere la sua mano, oltre che nell’angelo, ricordato dal Vasari, anche nel paesaggio e nei cespugli presso gli angeli.
Le prime opere indipendenti di Leonardo vengono oggi datate tra il 1469 e i primi anni settanta, ancora prima del Battesimo. In questi lavori, su cui il dibattito critico è stato molto acceso, l’artista mostra una forte adesione al linguaggio comune degli allievi di Verrocchio, complicando gli studi attributivi.
La piena autografia della piccola Madonna Dreyfus (1469 circa, National Gallery of Art, Washington) è una constatazione recente della critica, che in passato aveva oscillato anche sui nomi di Verrocchio e Lorenzo di Credi: stretta è infatti la vicinanza stilistica con la successiva Madonna del Garofano (1473 circa, Alte Pinakothek, Monaco), con gli incarnati delicati e quasi trasparenti, la gestualità familiare tra madre e figlio, l’ambientazione su uno sfondo scuro in cui si aprono “alla fiamminga” due finestre su un luminoso paesaggio.
Nel 1472 Leonardo risulterebbe iscritto alla “compagnia dei pittori” di Firenze, o Compagnia di San Luca, poi denominata Accademia delle Arti. I Medici vollero dare uno spazio a questi artisti in un piccolo giardino che si trovava a lato del convento di San Marco, fra Piazza San Marco e Via degli Arazzieri. Oggi una targa in pietra serena ricorda questo luogo.
L’Annunciazione
Proviene dalla bottega del Verrocchio la contemporanea Annunciazione degli Uffizi, ma la sua paternità – se pure può considerarsi di unica mano – è stata a lungo disputata dalla critica, per assestarsi infine sul nome di Leonardo.
L’Angelo annunciante appare infatti prossimo alla fattura dell’angelo del Battesimo, ed esistono due disegni certi di Leonardo: uno Studio di bracci alla Christ Church di Oxford e uno Studio di drappeggio con le gambe della Madonna al Museo del Louvre, che fanno preciso riferimento, rispettivamente, all’arcangelo e alla Vergine. Nonostante si stia formando uno stile personale, affiorano ancora motivi della scuola del Maestro, come il leggio-altare con zampe leonine, che ricordano da vicino la Tomba di Giovanni e Piero de’ Medici. Il dipinto contiene un “errore” di prospettiva, nel braccio destro eccessivamente lungo della Vergine, difetto che risulta attenuato assumendo un punto di vista leggermente a destra dell’opera.
Ci sono circa quattro anni nei quali gli studiosi non hanno identificato opere di Leonardo, ovvero fra il 1474 e il 1478. Si pensa che in questo periodo si sia dedicato agli geografici ed astronomici (probabilmente con Paolo dal Pozzo Toscanelli) e a quelli scientifici ed in particolare anatomici, assistendo alla dissezione di cadaveri nelle camere mortuarie degli ospedali.
Le denunce
Il 9 aprile 1476 venne presentata una denuncia anonima agli Ufficiali di notte e de’ monasteri contro diverse persone, tra le quali Leonardo, per sodomia consumata verso il diciassettenne Jacopo Saltarelli, residente in via Vacchereccia (accanto a piazza della Signoria). Anche se nella Firenze dell’epoca c’era una certa tolleranza verso l’omosessualità, la pena prevista in questi casi era severissima: l’evirazione per i sodomiti adulti e la mutilazione di un piede o della mano per i giovani.
Oltre a Leonardo, tra gli altri inquisiti vi erano l’orefice Bartolomeo di Pasquino, il farsettaio (sarto) Baccino, residente in via de’ Cimatori presso Orsanmichele, e soprattutto Leonardo Tornabuoni che è annotato come vestito di “nero” (la stoffa più costosa, prerogativa dell’alta società): egli era infatti un giovane rampollo della potentissima famiglia imparentata con i Medici.
Un’identica denuncia fu presentata anche nel giugno dello stesso anno. Fu proprio il coinvolgimento del Tornabuoni che avrebbe giocato a favore degli accusati: l’accusa venne infatti archiviata e gli imputati furono tutti “absoluti cum conditione ut retumburentur“, “perdonati (o liberati) salvo che non vi siano altre denunce in merito”. La denuncia riporta come comunque Leonardo a quella data fosse ancora a bottega da Verrocchio. (da Wikipedia)
Dopo la bottega del Verrocchio e l’interesse per la scuola del Pollaiolo, dove era particolarmente studiata l’anatomia, nel 1478 Leonardo divenne indipendente e iniziò il suo girovagare per l’Italia prima, e in Francia poi, chiamato da nobili e condottieri per mettere a loro disposizione le sue conoscenze non solo artistiche ma soprattutto architettoniche e creative nella difesa bellica.
Il 10 gennaio 1478 ricevette il primo incarico pubblico, una pala per la cappella di San Bernardo nel palazzo della Signoria; incassò dai Priori 25 fiorini ma forse non cominciò nemmeno il lavoro, affidato poi nel 1483 a Domenico Ghirlandaio e poi a Filippino Lippi, che lo completò nel 1485 (la Pala degli Otto, oggi agli Uffizi).
Verso la fine di quest’anno tornò alla pittura iniziando la Madonna Benois, oggi all’Ermitage di San Pietroburgo. sempre in quegli anni realizzò la piccola Annunciazione che è esposta oggi al Museo del Louvre a Parigi.
Sia per le denunce, che per la sua incostanza nei lavori, Leonardo a Firenze non trova spazio fra gli artisti prediletti di Lorenzo il Magnifico e ha difficoltà a trovare commesse. Nel 1481, grazie all’interessamento del padre, gli venne commissionata dai canonici regolari di Sant’ Agostino l’incarico di dipingere la tavola dell’altare maggiore della chiesa di San Donato a Scopeto, situata fuori dalla cerchia muraria di Firenze.
Si trattava di dipingere una Adorazione dei Magi nel tempo massimo di trenta mesi, ovvero entro l’epifania (6 gennaio) del 1482 o del 1483, cioè in due anni e mezzo dall’incarico.
Leonardo inizia l’opera studiando una composizione molto complessa, ricca di figure, articolata in un semicerchio che ha per fulcro la Vergine col Bambino. Davanti si inginocchiano i Magi, che portano in dono a Gesù oro, incenso e mirra. Leonardo dipinge un fondale in cui s’avvicendano architetture rovinose, scontri di cavalli e cavalieri; a sinistra è raffigurata la costruzione di un edificio, forse un tempio, preceduto da due rampe di scale come il presbiterio di alcune chiese medievali (ad esempio San Miniato al Monte a Firenze). Il tempio, che allude alla pace, si contrappone alla turba di cavalieri in battaglia rappresentata sul lato opposto.
Ma la sua irrequietezza lo spinge a scrivere una lettera a Ludovico Maria Sforza detto il Moro (Milano 1452 – Loches – Francia – 1508) reggente del Ducato di Milano dal 1480 al 1494.
Questa lettera è forse il primo esempio di curriculum vitae nel quale Leonardo si presenta al Duca di Milano magnificando le sue doti di ingegnere che avrebbe potuto rendere invincibile l’esercito di Milano grazie alle armi di sua invenzione.
Leonardo inoltre afferma di essere in grado progettare opere di architettura, di fondere in bronzo e scolpire, di dipingere.
Si tratta in parte di verità, ma in parte anche di millantato credito, in quanto non solo Leonardo non aveva mai costruito le armi di cui si vanta, ma molte di esse erano idee copiate da altri ingegneri. Esempi sono la vite idraulica, il paracadute, il salvagente e il respiratore subacqueo disegnati alcuni decenni prima da Taccola (Mariano Danniello Vanni, noto come Mariano di Jacopo e detto il Taccola o l’Archimede di Siena – 1381 – 1453 circa), oppure le macchine da guerra descritte nel “De Re Militari” da Roberto Valturio, o gli argani inventati dal Brunelleschi per la costruzione della Cupola del Duomo di Firenze, oppure ancora le proporzioni dell’uomo di Vitruvio di cui parleremo in un paragrafo successivo.
Insomma Leonardo elaborava le idee di altri, ne rimaneva affascinato e i suoi progetti avevano basi scientifiche ed erano spesso una evoluzione di idee appena abbozzate da altre, ma anche i suoi innumerevoli progetti avrebbero dovuto aspettare secoli prima di essere realizzati.
“Et se alchuna de le sopra dicte cose a alchuno paressino impossibile et infactibile, me offero paratissimo ad farne experimento in el parco vostro, o in quel loco piacerà a VostrA Excellentia, ad la quale humilmente quanto più posso me recomando” (Se le cose che ho promesso di fare sembrano impossibili e irrealizzabili, sono disposto a fornirne una sperimentazione in qualunque luogo voglia Vostra Eccellenza, a cui umilmente mi raccomando).
Ma la sua lettera a Ludovico il Moro colpì nel segno e fu presto invitato alla corte di Milano.
Abbandonò così il dipinto per la chiesa di San Donato a Scopeto.
Inutilmente gli agostiniani attesero che il pittore tornasse per ultimare il dipinto, fino a che decisero di affidare l’esecuzione di una nuova pala d’altare con l’Adorazione dei Magi a Filippino Lippi, ultimata nel 1496.
L’Adorazione dei Magi di Leonardo è dunque un dipinto sospeso nella sua esecuzione a un primo livello di abbozzo. Il maestro portò l’elaborazione dell’opera a stadi diversi: alcuni personaggi sono appena delineati, come per fermare un’idea, altri sono più rifiniti. Il cielo è costituito da una stesura a base di bianco di piombo e lapislazzulo.
L’opera, nel suo stato, si trova oggi nella Galleria degli Uffizi di Firenze.
Il primo viaggio a Milano
Fra il 1482-83 Leonardo arriva qiundi a Milano alla corte di Ludovico Sforzane fonti, in qualità di musico da Lorenzo il Magnifico; ma in una sua lettera al Moro, Leonardo si dichiarava capace di inventare e costruire congegni bellici, di progettare opere di architettura, di fondere in bronzo e scolpire, di dipingere.
A Milano egli svolse intensa attività di pittore, lavorò a un monumento per Francesco Sforza, allestì apparati per feste e fu scenografo, ingegnere militare, consultato per problemi di architettura. Questo periodo fu il più fecondo di opere compiutamente realizzate e di altre riprese in seguito. In particolare Leonardo poté approfondire i proprî studî scientifici e intraprenderne di nuovi, nel campo sia della fisica sia delle scienze naturali.
Nel 1483 gli viene affidata, dai frati dell’Immacolata, la realizzazione di un trittico, dove, nella pala centrale doveva essere realizzata una Madonna con un vestito in broccato d’oro, sovrastata da Dio e un gruppo di angeli. Leonardo però non dipinse ciò che il contratto prevedeva nel dettaglio, bensì realizzò la famosa Vergine delle Rocce (oggi alla National Gallery di Londra).
Non è chiaro perché Leonardo cambiò il soggetto della tavola, optando piuttosto per il leggendario incontro tra i piccoli Gesù e Giovanni narrato nella Vita di Giovanni secondo Serapione e in altri testi sull’infanzia di Cristo. Potrebbe essere stato Leonardo a decidere arbitrariamente le modifiche, ma è possibile che, viste le consuetudini dell’epoca, siano state le richieste dei committenti a cambiare anche in considerazione dello stile un po’ “arcaico” della prima richiesta.
Negli anni milanesi Leonardo ricevette molte commissioni dal Duca di Milano. Per esempio nei primi mesi del 1489 si adoperò per realizzare le decorazioni nel castello Sforzesco, per le nozze di Gian Galeazzo Sforza e Isabella d’Aragona, poi rimandate all’anno successivo per la morte della madre dei lei.
Sempre in quegli anni Leonardo avviò la realizzazione del monumento equestre a Francesco Sforza, per il quale fu richiesto a Lorenzo il Magnifico di avere la collaborazione dei fonditori fiorentini. L’impresa era colossale, non solo per le dimensioni della statua, che doveva essere fusa in bronzo, ma anche per l’intento di scolpire un cavallo nell’atto di impennarsi e abbattersi sul nemico.
Il Maestro spese mesi interi nello studio dei cavalli, frequentando le scuderie ducali per studiare da vicino l’anatomia di questi animali, soprattutto riguardo al rilassamento e alla tensione dei muscoli durante l’azione. L’impresa venne sospesa per riprendere le celebrazioni del matrimonio Sforza-d’Aragona.
La statua, che doveva essere alta più di 7 metri per un peso di circa 650 quintali, non fu mai portata a termine. Leonardo realizzò le forme di fusione e il colossale modello di terra, che sarà poi distrutto dai balestrieri francesi durante l’occupazione di Milano nel 1499.
La Dama con l’ermellino
Nel 1490 esegue un ritratto di Cecilia Gallerani, poi soprannominato la Dama con l’ermellino.
L’opera è uno dei dipinti più belli di Leonardo Da Vinci, simbolo dello straordinario livello artistico raggiunto durante il suo primo soggiorno milanese.
L’opera, della quale si ignorano le circostanze della commissione, si ritiene faccia riferimento al prestigioso titolo onorifico di cavaliere dell’Ordine dell’Ermellino che Ludovico il Moro ricevette dal re di Napoli Ferdinando I di Aragona.
Leonardo però in questa opera mette qualcosa di suo forse più che nella Gioconda. Lo sguardo di Cecilia Gallerani è malizioso, la bocca, leggermente alzata da una parte, sembra ammiccare, l’ermellino, in una posa “manierista”, muscoloso e dal volto quasi antropomorfo, forse rappresenta l’amante che lei desidera e accarezza allegoricamente.
E’ possibile che fra Leonardo e la Gallerani vi fosse qualcosa di più che un rapporto d’arte. Leonardo d’altra parte ebbe numerose relazioni con altri uomini, come ad esempio Francesco Melzi, del quale parleremo al termine di questa biografia, ma non si può escludere che avesse avuto anche amanti femminili e fra queste probabilmente anche Cecilia Gallerani.
La Gioconda probabilmente non sarebbe così famosa se non fosse per l’episodio del furto avvenuto nel 1911 (di cui parleremo in seguito). Al di là dell’enigmatico volto della Gioconda, il ritratto della Dama con l’ermellino, non ha niente da invidiare al più famoso quadro del mondo.
Il Cenacolo
Nel 1495 inizia a dipingere il Cenacolo, nel refettorio della chiesa di Santa Maria delle Grazie appartenente all’ordine domenicano. I lavori dureranno tre anni.
Il Cenacolo è un dipinto parietale ottenuto con una tecnica mista a secco su intonaco, le cui dimensioni sono 4,6 per 8,8 metri. Fu realizzato sempre su commissione di Ludovico il Moro ed è sicuramente la più celebre rappresentazione dell’ultima cena di Gesù con i dodici apostoli.
Leonardo non amava gli affreschi la cui rapidità di esecuzione, dovuta alla necessità di stendere i colori prima che l’intonaco asciugasse per imprigionarli, non era compatibile con il suo modus operandi, fatto di continui ripensamenti, aggiunte e piccole modifiche.
Anche in questo caso, come per la battaglia di Anghiari, volle sperimentare una tecnica singolare dipingendo su muro come dipingeva su una tavola. Leonardo, steso un intonaco piuttosto ruvido, soprattutto nella parte centrale, e steso le linee principali della composizione con una specie di sinopia [3], lavorò al dipinto usando una tecnica tipica della pittura su tavola.
La preparazione era composta da una mistura di carbonato di calcio e magnesio uniti da un legante proteico; prima di stendere i colori l’artista interponeva un sottile strato di biacca (bianco di piombo), che avrebbe dovuto far risaltare gli effetti luminosi.
Successivamente Leonardo avrebbe steso i colori a secco, composti da una tempera grassa realizzata probabilmente emulsionando degli olii all’uovo.
Questa tecnica permise la particolare ricchezza della pittura, con una serie di piccole pennellate quasi infinite e una raffinata stesura tono su tono, che consentì una migliore unità cromatica, una resa delle trasparenze e degli effetti di luce, e una cura estrema dei dettagli, visibili solo da distanza ravvicinata; ma fu anche all’origine dei problemi conservativi, soprattutto in ragione dell’umidità dell’ambiente, confinante con le cucine.
Appena terminato il dipinto, Leonardo si accorse che la tecnica che aveva utilizzato mostrava subito i suoi gravi difetti: nella parte a sinistra in basso si intravedeva già una piccola crepa. Si trattava solo dell’inizio di un processo di disgregazione che sarebbe continuato inesorabile nel tempo; già una ventina di anni dopo la sua realizzazione, il Cenacolo presentava danni molto gravi, tanto che Giorgio Vasari, che la vide nel maggio del 1566, scrisse che “non si scorge più se non una macchia abbagliata“.
L’opera ha avuto la tendenza a degradarsi rapidamente e numerose volte, con diversi interventi che forse l’hanno ancor più danneggiata. L’ultimo grande restauro risale al 1978 e durò fino al 1999. Nonostante gli oltre 17 anni e con una spesa di circa 7 miliardi di lire (3,5 milioni di euro circa), l’opera presenta ancora i segni del degrado dei secoli.
In aggiunta all’umidità e alla tecnica incompatibile con quel tipo di supporto si sono aggiunte le beffe dei frati che nel 1650 aprono una nuova porta per rendere comunicanti le cucine con il cenacolo, distruggendo definitivamente proprio le gambe di Cristo. Successivamente nel 1796 l’esercito napoleonico occupa Milano e, nonostante l’ordine di Napoleone di non danneggiare il refettorio, un bravo ufficiale decide di trasformarlo in stalla per i cavalli dell’esercito.
Danni ancora più gravi vennero causati durante la seconda guerra mondiale, quando il convento venne bombardato nell’agosto del 1943: venne distrutta la volta del refettorio, ma il cenacolo rimase salvo tra cumuli di macerie, protetto solo da un breve tetto e da una difesa di sacchi di sabbia, rimanendo esposto per vari giorni ai rischi causati dagli agenti atmosferici.
In quegli anni decora inoltre la Sala delle Asse al Castello Sforzesco di Milano e prepara l’impianto scenico per la rappresentazione della Danae di Baldassarre Taccone da rappresentarsi nella casa del conte Francesco Sanseverino.
Trattato sulla pittura
Intorno al 1498 Leonardo inizia a raccogliere numerosi scritti, opera proseguita poi dal suo discepolo Francesco Melzi [4] (Milano? 1491 o 1493 – Vaprio d’Adda dopo il 1568), in quello che diventerà poi Il Trattato sulla pittura. Si tratta di una raccolta di pensieri e appunti tratti da diversi suoi manoscritti dei quali Leonardo forse voleva comporre una grande opera sulla pittura. La migliore raccolta pervenutaci è quella del Codice Urbinato del 1270 della Biblioteca Vaticana. Il Trattato comprende 935 paragrafi o capitoli.
L’organicità dello scritto fa pensare che Leonardo avesse concepito il Trattato suddiviso in due grandi sezioni. La prima teorica, dove afferma i principi ideologici e filosofici della pittura, con i principi della prospettiva, di luci e ombre. Una seconda pratica, in cui il maestro dà una serie di consigli e precetti, sulle proporzioni di corpi e figure e sulla rappresentazione dei moti e degli elementi naturali. Il filo conduttore del Trattato, è l’esercizio dell’arte di saper osservare quasi scientificamente e cogliere i segreti della natura e tutti gli aspetti che ne determinano la percezione visiva.
“Se la pittura è scienza o no. Scienza è detto quel discorso mentale il quale ha origine da’ suoi ultimi principî, de’ quali in natura null’altra cosa si può trovare che sia parte di essa scienza, come nella quantità continua, cioè la scienza di geometria, la quale, cominciando dalla superficie de’ corpi, si trova avere origine nella linea, termine di essa superficie; ed in questo non restiamo satisfatti, perché noi conosciamo la linea aver termine nel punto, ed il punto esser quello del quale null’altra cosa può esser minore.” (Leonardo Da Vinci, Trattato della pittura)
Leonardo scrive il libro sulla pittura ed è impegnato nello studio di forze e pesi. Partecipa al “duello lodevole e scientifico” presieduto da Ludovico il Moro e riceve una vigna dal Duca.
L’uomo Vitruviano
Nel 1490, durante un viaggio da Milano a Pavia, Leonardo incontra Francesco di Giorgio Martini [5] (Siena 1439 – Siena 1501) che gli illustra il suo Trattato di architettura e gli parla della lezione di Vitruvio [6] del cui trattato De architectura aveva iniziato a tradurre alcune parti. Leonardo, che si definiva un “omo sanza lettere” (uomo senza cultura), poiché non aveva avuto un’educazione che gli permettesse di comprendere il testo latino, trovò utile la traduzione in volgare di Martini.
La rielaborazione in volgare dei concetti vitruviani dovette risultargli particolarmente stimolante, come risulta anche dal cosiddetto Manoscritto B (Parigi, Institut de France), dedicato all’urbanistica e all’architettura religiosa e militare. Da questo colloquio sembra che Leonardo avesse trovato l’ispirazione per uno dei suoi disegni più famosi: l’uomo vitruviano.
Il disegno illustra le proporzioni del corpo umano in forma geometrica ed è accompagnato da due testi esplicativi, nella parte superiore e nella parte inferiore della pagina, ispirati ad un passo di Vitruvio.
Nella parte superiore è presente un testo con abbreviazioni che sostanzialmente dice:
«Vetruvio, architetto, mette nella sua opera d’architectura, chelle misure dell’omo sono dalla natura disstribuite in quessto modo cioè che 4 diti fa 1 palmo, et 4 palmi fa 1 pie, 6 palmi fa un chubito, 4 cubiti fa 1 homo, he 4 chubiti fa 1 passo, he 24 palmi fa 1 homo ecqueste misure son ne’ sua edifiti. Settu apri tanto le gambe chettu chali da chapo 1/14 di tua altez(z)a e apri e alza tanto le bracia cheù cholle lunge dita tu tochi la linia della somita del chapo, sappi che ‘l cientro delle stremita delle aperte membra fia il bellicho. Ello spatio chessi truova infralle gambe fia triangolo equilatero»
… quindi segue …
«Tanto apre l’omo nele braccia, quanto ella sua altezza. Dal nasscimento de chapegli al fine di sotto del mento è il decimo dell’altez(z)a del(l)’uomo. Dal di sotto del mento alla som(m)ità del chapo he l’octavo dell’altez(z)a dell’omo. Dal di sopra del petto alla som(m)ità del chapo fia il sexto dell’omo. Dal di so-pra del petto al nasscimento de chapegli fia la settima parte di tutto l’omo. Dalle tette al di sopra del chapo fia la quarta parte dell’omo. La mag(g)iore larg(h)ez(z)a delle spalli chontiene insè [la oct] la quarta parte dell’omo. Dal go- mito alla punta della mano fia la quarta parte dell’omo, da esso gomito al termine della isspalla fia la octava parte d’esso omo; tutta la mano fia la decima parte dell’omo. Il membro virile nasscie nel mez(z)o dell’omo. Il piè fia la sectima parte dell’omo. Dal di sotto del piè al di sotto del ginochio fia la quarta parte dell’omo. Dal di sotto del ginochio al nasscime(n)to del membro fia la quarta parte dell’omo. Le parti chessi truovano infra il mento e ‘l naso e ‘l nasscimento de chapegli e quel de cigli ciasscuno spatio perse essimile alloreche è ‘l terzo del volto»
Molti commentatori hanno letto le due sezioni di testo come delle ripetizioni. Ma se si legge attentamente, ci si rende conto che Leonardo invece, vuole fare notare la discrepanza fra le misurazioni riportate da Vitruvio e quelle che lui stesso rilevò sul corpo di modelli maschili a Milano. In particolar modo, si nota la diversa proporzione del piede. Per Vitruvio questo è “4 palmi” e quindi un sesto dell’uomo (il corpo è 4 cubiti di 6 palmi l’uno, cioè 24 palmi, ma visto che un piede è 4 palmi, il piede è 1/6 dell’altezza complessiva), ma come Leonardo scrive esplicitamente, per lui il piede è “la sectima parte dell’omo.”
Mantova, Venezia, Romagna, Marche e ritorno a Firenze
Nel marzo del 1500 la sconfitta di Ludovico il Moro [7] (16 marzo) e la conseguente occupazione di Milano da parte dei francesi, costrinse Leonardo a lasciare la città. Insieme al matematico Pacioli, di cui era grande amico, e all’allievo Salai, partì per Mantova alla corte di Isabella d’Este, dove fu accolto con grande favore e ricevette richieste di opere di pittura (disegnò un ritratto di Isabella d’Este) e progettò un piano di difesa della città contro l’invasione turca.
Pochi mesi dopo proseguì poi per Venezia, dove compì studi per la difesa della città lagunare. Ma il suo soggiorno a Venezia durò poco e ritornò a Firenze e alloggia presso il convento dei Serviti alla Santissima Annunziata.
Fra il 1502 e il passa alcuni mesi al servizio del Duca Valentino (Cesare Borgia) impegnato in alcune operazioni militari in Romagna, il quale chiede la sua consulenza come ingegnere militare. Sono di questo periodo i suoi viaggi a Urbino, Rimini, Cesena, Pesaro, Cesenatico e in altre città delle Marche e della Romagna, dove egli studia porti, problemi di idraulica, fortificazioni e altre opere di ingegneria militare.
Nel 1503 si trova a Firenze dove si occupa ancora, per Piero Soderini [8], di pittura, di questioni militari, e di canalizzazioni, a scopo sia pacifico sia militare. In questo periodo inizia a lavorare al ritratto della Gioconda. La Signoria lo incarica di realizzare l’affresco della Battaglia di Anghiari, ma il dipinto, eseguito con tecniche di pittura sperimentali, non si conserva a lungo. In questo stesso anno riprende gli studi sul volo e sull’anatomia.
Nel 1504 muore il padre, Ser Piero all’età di ottanta anni. Leonardo continua a lavorare alla battaglia di Anghiari e realizza il progetto di canalizzazione dell’Arno.
La Gioconda
Come si è appena detto, Leonardo inizia a lavorare al dipinto che raffigura Monna Lisa intorno al 1503. Si ritiene che il ritratto rappresenti madonna (o monna) Lisa figlia di Antonmaria Gherardini, detta anche Lisa del Giocondo perché sposa di Francesco di Bartolomeo di Zanobi del Giocondo di Montagliari (Firenze 1465 – Firenze 1542).
Secondo il Vasari “Prese Lionardo a fare per Francesco del Giocondo il ritratto di monna Lisa sua moglie e quattro anni penatovi, lo lasciò imperfetto; la quale opera oggi è appresso il re Francesco di Francia in Fontanbleo”. Pare infatti che Francesco I la acquistò per 400 scudi d’oro e la collocò nel Castello di Fontainbleu.
Leonardo portò sempre con sé il dipinto per ritoccarlo continuamente fino alla sua morte in Francia.
A far accrescere l’aura di mistero intorno al volto quasi enigmatico della Gioconda, vi sono molteplici affermazioni di studiosi che attribuiscono il ritratto ad altri soggetti come Caterina Sforza e la madre stessa di Leonardo, Caterina di Piero del Vacca o Isabella d’Aragona, duchessa di Milano.
D’altra parte lo stesso Vasari crea confusione nel descrivere il dipinto: “nella qual testa chi voleva vedere quanto l’arte potesse imitar la natura, agevolmente si poteva comprendere; perché quivi erano contraffatte tutte le minuzie che si possono con sottigliezza dipingere. Avvengaché gli occhi avevano que’ lustri e quelle acquitrine che di continuo si veggono nel vivo, ed intorno a essi erano tutti que’ rossigni lividi e i peli, che non senza grandissima sottigliezza si possono fare. Le ciglia, per avervi fatto il modo del nascere i peli nella carne, dove più folti e dove più radi, e girare secondo i pori della carne, non potevano essere più naturali. Il naso, con tutte quelle belle aperture rossette e tenere, si vedeva essere vivo. La bocca, con quella sua sfenditura, con le sue fini unite dal rosso della bocca, con l’incarnazione del viso, che non colori ma carne pareva veramente. Nella fontanella della gola chi intensissimamente la guardava vedeva battere i polsi.”
Questa descrizione infatti non corrisponde con il dipinto, ma bisogna tener conto che il Vasari, probabilmente, non vide mai il ritratto (nota a margine de “Le Vite” – “La descrizione è di maniera, non corrispondendo all’originale, che molto probabilmente lo scrittore non conobbe direttamente”), ma forse ne ebbe solo una descrizione. Bisogna inoltre considerare che da una analisi approfondita del dipinto ai raggi X, risulterebbero stratificarsi una sull’altra ben tre versioni della Monna Lisa, nascoste sotto l’attuale. Le continue correzioni di Leonardo potrebbero aver modificato quelle parte descritte così minuziosamente dal Vasari.
Del “girovagare” della Gioconda si hanno tracce nei secoli, dopo l’acquisizione del Re di Francia. Nel 1625 Cassiano dal Pozzo [9] indicò fra le collezioni reali francesi un ritratto chiamato la Gioconda. Successivamente si sa che Luigi XIV fece trasferire il dipinto a Versailles, e dopo la rivoluzione francese fu spostato al Louvre. Si sa anche che per un breve periodo Napoleone mise il ritratto nella sua camera da letto, ma che nel 1804 tornò al Louvre.
Il furto della Gioconda
Nel 1911 il dipinto venne trafugato dal Louvre. Il furto fu il primo da un museo e fece molto scalpore, accrescendo la fama del dipinto in tutto il mondo. Vennero dapprima sospettati Guillaume Apollinaire [10], perché aveva dichiarato di voler distruggere i capolavori, e poi Pablo Picasso [11] I sospetti ricaddero anche sulla Germania, paese nemico della Francia. In realtà era stato un ex dipendente del Louvre, l’italiano Vincenzo Peruggia [12]; che riteneva erroneamente la Gioconda un quadro italiano sottratto da Napoleone Bonaparte.
Il quadro fu ritrovato a Firenze nel 1913 quando Peruggia cercò di vendere il quadro ad un antiquario fiorentino, il quale, per valutare l’autenticità dell’opera si fece accompagnare dall’allora direttore del Museo degli Uffizi, Giovanni Poggi.
Peruggia fu catturato, processato e condannato ad una pena di 380 giorni poi ridotti a sette mesi e 15 giorni. L’opinione pubblica italiana considerò Peruggia un eroe romantico (aveva dichiarato di aver passato due anni “romantici” con la Gioconda sul suo tavolo di cucina”) che voleva restituire il dipinto all’Italia perché “…appartiene all’Italia e perché Leonardo è italiano”.
Dopo questa avventura la Gioconda fu esposta prima agli Uffizi, poi all’ambasciata di Francia e alla Galleria Borghese a Roma e infine alla Pinacoteca di Brera a Milano.
Quando tornò in Francia venne accolta dal Presidente della Repubblica e da tutto il governo. Da allora la Gioconda è considerato il dipinto più famoso al mondo, ma non è detto che sia il più bello, anche perché le altre “dame” ritratte da Leonardo sono sicuramente altrettanto se non più belle, ma non bisogna ricordare solo le donne ritratte da Leonardo ma anche fanciulli, angeli e paesaggi racchiudono bellezza e mistero che aleggia intorno ad ogni cosa che il maestro ha fatto nella sua vita.
Codice sul volo degli uccelli
Nel 1505 scrive il Codice sul volo degli uccelli (“Ucelli et altre cose“), un manoscritto oggi conservato presso la Biblioteca Reale di Torino, composto da 18 fogli oltre ad una copertina.
Questo Codice contiene osservazioni e disegni sul volo degli uccelli, probabilmente frutto di osservazioni giovanili e approfondimenti successivi soprattutto di anatomia e fisionomia degli uccelli, con riflessioni sulla resistenza all’aria e sulle correnti, con progetti di macchine volanti.
Ritorno a Milano
Nel 1506 Leonardo ritorna a Milano per un breve soggiorno di tre mesi durante i quali viene nominato ingegnere e pittore di Luigi XII re di Francia. Tutto questo per il fatto che il Re aveva provato ad entrare in possesso dell’affresco dell’ultima cena di Milano, ma la rimozione ebbe troppi problemi (“…onde tentò per ogni via se ci fusse stato architetti, che con trovate di legnami e di ferri l’avessero potuta armar di maniera, che ella si fosse condotta salva, senza considerare a spesa che vi su fusse potuta fare, tanto la desiderava. Ma l’esser fatta nel muro fece che Sua maestà, se ne portò la voglia, ed ella si rimase a’ Milanesi.” – Giorgio Vasari “le Vite”).
Lavora per alcuni anni al servizio dei francesi anche se da Milano e nel 1513, dopo alcuni anni durante i quali ha proseguito gli studi anatomici, si trasferisce a Roma con il suo fedelissimo discepolo Francesco Melzi.
A Roma si mette al servizio di Giuliano de’ Medici (Firenze, 12 marzo 1479 – Firenze, 17 marzo 1516), settimo ed ultimo figlio di Lorenzo de’ Medici e di Clarice Orsini, fu duca di Nemours dal 1515, signore di Firenze dal 1513 e capitano generale della Chiesa. I titoli onorifici e gli incarichi sopravvennero quando uno dei suoi fratelli divenne papa Leone X (Giovanni di Lorenzo de’ Medici – Firenze 1475 – Roma 1521, papa dal 1513).
A Roma Leonardo alloggia in vaticano continua a dipingere e studiare, nel frattempo, fra le altre cose, redige il progetto per il porto di Civitavecchia.
Il trasferimento in Francia e la morte
Nell’autunno del 1516 si trasferisce in Francia di nuovo su invito del Re di Francia Francesco I nei pressi del castello reale di Amboise, sulla Loira.
Un narratore racconta che “un curioso equipaggio varcò i bastioni di Amboise sotto lo sguardo della folla. Appollaiato su un mulo, un fiero vecchio con la barba bianca osserva questo ambiente che d’ora in poi farà parte della sua vita quotidiana. Nel suo carro, una moltitudine di scrigni pieni di libri, pergamene e oggetti di ogni genere, tra i quali si può distinguere il ritratto di una giovane donna, il cui sorriso enigmatico continua a scatenare passioni“.
Quel vecchio era proprio Leonardo e fra tutte le cose che si era portato appresso vi era proprio la Gioconda che continuò a ritoccare e dipingere fino alla sua morte.
Quando arrivò ad Amboise, Leonardo aveva 64 anni ed aveva accettato l’invito del re Francesco 1, che gli versava buona pensione. Leonardo risiedeva al Manoir du Cloux (Chateau du Clos-Lucé), con i suoi due compagni milanesi, Francesco Melzi e Battista da Vilanis.
Leonardo fu insignito del titolo di “Primo pittore, architetto e ingegnere del re” e in quegli anni si dedicò rapidamente a una serie di grandi progetti per il sovrano, che non perdeva occasione per visitarlo dicendogli: “Qui, Leonardo, sarai libero di sognare, pensare, lavorare“.
Il 23 aprile 1519 Leonardo scrive il suo testamento designando erede universale Francesco Melzi, 10 giorni dopo sopravverrà la morte, il 2 maggio e Leonardo troverà sepoltura ad Amboise.
Alcune considerazioni su Leonardo da Vinci
La vita di Leonardo da Vinci non è stata molto diversa da quella di altri artisti della sua epoca.
Leonardo ci ha lasciato una quindicina di dipinti soltanto, alcuni dei quali, a causa delle sue sperimentazioni di colori e tecniche pittoriche, non sono neanche arrivati a noi (come l’affresco sulla battaglia di Anghiari nel salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze) o l’ultima cena di Milano, che si deteriora rapidamente a causa proprio delle tecniche usate.
Leonardo non ci ha lasciato grandi invenzioni. La maggior parte delle cose che ha progettato non le ha realizzate e alcune di queste erano copie di studi o idee di altri, come lo studio sull’uomo Vitruviano di cui abbiamo parlato oppure il paracadute, idea realizzata alcuni decenni prima dei disegni di Leonardo da Mariano Danniello Vanni, noto come Mariano di Jacopo detto il Taccola o l’Archimede di Siena (Siena, 4 febbraio 1381 -1453 ca),
Leonardo ha avuto grandi idee, fantasiose intuizioni e la grande capacità di trasferirle in progetti e disegni su carta. Tutti gli studi e le sue idee sono stati dispersi per secoli prima di essere raccolti nei Codici Leonardiani che sono delle collezioni varie di scritti leonardiani. come il Codice Leicester (dal 1980 noto anche come Codice Hammer) che è un manoscritto, comprendente 36 fogli databili tra il 1506 e il 1510. Unico dei codici di Leonardo ad essere in mano a privati, è oggi di proprietà di Bill Gates.
Poche dei suoi progetti sono stati realizzati in vita. Qualche macchina idraulica, e molti meccanismi utilizzati per le feste di corte di Milano o di Parigi.
Forse la mancanza di mezzi idonei, la esplosiva mente che produceva idee in continuazione abbandonando quelle precedenti, forse ancora la perdita dei manoscritti per secoli, ha causato il ritardo nel comprendere che queste grandi idee leonardiane potevano essere realizzabili da ingegneri veri o studiosi a lui succeduti.
La dimostrazione della vulcanicità ed elasticità della sua mente è la cosiddetta “scrittura speculare” di Leonardo. Non fu il solo ad adottare questo sistema di scrittura, ma sicuramente è stato colui che ne ha fatto un uso consueto e massivo, soprattutto se si considerano le migliaia di pagine (circa 16.000 oggi conservate, ma si pensa che ne abbia scritte in vita fino a 100.000) oggi raccolte nei diversi Codici. Questa scrittura consiste nello scrivere le lettere come se fossero riflesse da uno specchio. Nel sistema occidentale, perciò, da destra verso sinistra, ed è infatti chiamata anche grafia sinistrorsa.
La scrittura speculare è studiata dalla neurologia e dalla psicoanalisi, in quanto inclinazione che parrebbe manifestazione di disagi individuali, come ad esempio la dislessia o un distorto rapporto fra l’ego e l’esteriorità.
Chi era Francesco Melzi
Francesco Melzi quindi è stato l’erede testamentario di molte opere, soprattutto tavole, disegni e Trattati, che Leonardo ha lasciato nelle sue mani per espresso volere testamentario.
Ma chi era Melzi?
Ecco quello che scrive di lui Giorgio Vasari in proposito di uno dei trattati: “Di queste carte della notomia (anatomia ndr) degli uomini n’è gran parte nelle mani di messer Francesco di Melzo (4), gentiluomo milanese, che nel tempo di Lionardo era bellissimo fanciullo e molto amato da lui, così come oggi è bello e gentile vecchio che le ha care e tiene come per reliquie tali carte insieme con il ritratto della felice memoria di Lionardo.”
Conobbe il maestro nel 1506 e lo accompagnò in occasione del secondo soggiorno milanese fra il 1508 e il 1513. Seguì Leonardo anche in Francia, sino alla morte del suo maestro. Il Re di Francia, Francesco I, stipendierà non solo Leonardo ma anche il suo omonimo milanese nella sua veste di discepolo e seguace prediletto del Da Vinci, rendendolo gentiluomo della Camera di Francia nel 1520.
Tornato dalla Francia a Milano nel 1521, Francesco Melzi fece buon uso della fama del suo maestro e dei servigi da lui svolti quale discepolo ed erede, divenendo la figura di riferimento da contattare sugli allestimenti artistici e negli eventi pubblici.
Solo per citare le attività più importanti in cui fu coinvolto, consigliò, tra il 1533 ed il 1534, gran parte degli allestimenti per accogliere Cristina di Danimarca, sposa di Francesco II, Duca di Milano, mentre nel periodo tra il 1533 ed il 1538 fornì, su richiesta, pareri sulla costruzione della porta del Duomo che dava verso Compedo, laddove nel 1541, la sua carriera di facilitatore di buone relazioni venne confermata dalla riconoscenza del Governatore Alfonso d’Avalos allorché Carlo V di Borbone ribadì il suo dominio su Milano, che era stata addobbata per l’occasione secondo le indicazioni dell’allievo prediletto di Leonardo.
Francesco Melzi si dilettava anche nella pittura e le uniche sue opere certe sono riconoscibili perchè firmate in lettere greche. I dipinti del Melzi noti sono: il Vitumno e Pomona conservato alla Gemäldegalerie di Berlino, la Flora dell’Ermitage di San Pietroburgo, e il Gentiluomo con Pappagallo della Collezione Gallarati Scotti a Milano.
BIBLIOGRAFIA
- Giorgio Vasari – Delle vite de’ pittori, scultori et architettori che sono stati da Cimabue in qua scritte da M. Giorgio Vasari – pittore aretino.
- Carlo Pedretti – Leonardo, il ritratto – Giunti Editore – Il Giornale
- Ian Chilvers – Dizionario dell’Arte – Baldini Castoldi Dalai editore – Milano, 2008
- Umberto Eco – Storia della Bellezza – Bompiani Editore, 2004
- Luigi Pruneti, Maurizio Mannelli – Uffizi, tutta la galleria – AZ Editrice, Firenze 1987
- AA. VV. – Leonardo: la dama con l’ermellino – Silvana Editoriale, Arti Grafiche Amilcare Pizzi SpA, Ministero per i Bni Culturali e Ambientali. Roma, 1998
- Wikipedia l’enciclopedia libera
- Treccani.it – Enciclopedia Italiana online
- Uffizi.it – Opere esposte alla Galleria degli Uffizi di Firenze
NOTE
[1] Giorgio Vasari (Arezzo, 30 luglio 1511 – Firenze, 27 giugno 1574) è stato un pittore, architetto e storico dell’arte italiano. È famoso per numerose opere di architettura come il corridoio vasariano che a Firenze collega Palazzo vecchio a palazzo Pitti, attraversando l’Arno sopra il Ponte Vecchio, Il palazzo della carovana a Pisa che ospita la Scuola Normale Superiore, e per la prima rassegna biografica scritta sugli artisti ovvero “Delle vite de’ pittori, scultori et architettori che sono stati da Cimabue in qua scritte da M. Giorgio Vasari – pittore aretino”.
[2] Andrea di Michele di Francesco di Cione detto Il Verrocchio (Firenze 1436 – Venezia 1488), era figlio di un fornaio, tale Michele di Francesco Cioni e della sua prima moglie Gemma. Prese il nome con cui è più noto dal suo primo maestro, l’orafo Giuliano del Verrocchio, Nella sua vita artistica il Verrocchio è stato uno scultore, pittore e orafo italiano. Rivestì un ruolo importante nella tendenza a misurarsi con diverse tecniche artistiche, manifestatesi nella Firenze di fine Quattrocento, e infatti la sua bottega divenne polivalente, con opere di pittura, scultura, oreficeria e decorazione, così da poter far fronte all’insistente domanda proveniente da tutta l’Italia di prodotti fiorentini. (da Enciclopedia Treccani e Wikipedia)
[3] La sinopia è un disegno preparatorio sul muro o sull’arriccio, usato per la pittura a fresco e per il mosaico. Il nome deriva dal fatto che il disegno viene eseguito con della terra rossa che in origine proveniva da Sinope, sul Mar Nero sul muro o sull’arriccio.
[4] Giovanni Francesco Melzi o Francesco da Melzo della famiglia dei Melzi d’Eril, nato da nobile famiglia milanese nel 1492, fu affidato nel 1507 a Leonardo che grandemente lo predilesse e lo condusse con sé a Roma e in Francia. Fu aiuto del maestro in molte opere. Ereditò tutti i manoscritti leonardeschi, che riportò a Milano, dove morì nel 1570.)
[5] Francesco di Giorgio Martini è stato un architetto, teorico dell’architettura, pittore, ingegnere, scultore, medaglista italiano.
[6] Marco Vitruvio Pollione (Marcus Vitruvius Pollio, 80 a.C. circa – dopo il 15 a.C. circa) è stato un architetto e scrittore romano, attivo nella seconda metà del I secolo a.C., considerato il più famoso teorico dell’architettura di tutti i tempi. (da Wikipedia)
[7] Ludovico Sforza detto il Moro (Milano o Vigevano 1452 – Loches, Francia 1508). Figlio di Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza, sposò Beatrice d’Este. È stato duca di Bari dal 1479, reggente del Ducato di Milano dal 1480 al 1494 affiancando il nipote Gian Galeazzo Maria Sforza e infine duca egli stesso dal 1494 al 1499. La madre, in una lettera al marito datata 8 agosto 1452, descriveva il neonato come “uno bello fiolo […] il più sozo de tutti li altri”, cioè più scuro di carnagione rispetto agli altri, da qui il soprannome de “il Moro”.
[8] Pier Soderini (Firenze, 18 maggio 1450 – Roma, 13 giugno 1522) è stato un politico italiano, gonfaloniere a vita a Firenze dal 1502, carica che però mantenne solo fino al 1512.
[9] Cassiano dal Pozzo (Torino, 21 febbraio 1588 – Roma, 22 ottobre 1657) è stato un viaggiatore e collezionista d’arte italiano. (da Wikipedia)
[10] Guillaume Apollinaire, pseudonimo di Wilhelm Albert Włodzimierz Apollinaris de Wąż-Kostrowicki (Roma, 26 agosto 1880 – Parigi, 9 novembre 1918) è stato un poeta, scrittore, critico d’arte e drammaturgo francese. (da Wikipedia)
[11] Pablo Ruiz y Picasso, (Malaga – Spagna, 1881 – Mougins – Francia, 1973), è stato il pittore più rappresentativo della corrente pittorica e scultorea del cubismo.
[12] Vincenzo Pietro Peruggia (Dumenza – Varese, 1881- Saint-Maur-des-Fossés,1925) è stato un decoratore italiano.
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