Testi di Claudio Del Lungo e di Anselmo Pagani

 

Giorgio Vasari ci introduce alla vita di “Iacopo da Puntormo” con queste parole: Gl’antichi, o vero maggiori[1] di Bartolomeo di Iacopo di Martino, padre di Iacopo da Puntormo del quale al presente scriviamo la vita, ebbono, secondo che alcuni affermano, origine dall’Ancisa[2], castello del Valdarno di sopra[3], assai famoso per avere di lì tratta similmente la prima origine gl’antichi di Messer Francesco Petrarca[4]. Ma o di lì o d’altronde che fussero stati i suoi maggiori, Bartolomeo sopra detto, il quale fu fiorentino e secondo che mi vien detto della famiglia de’ Carucci, si dice che fu discepolo di Domenico del Ghirlandaio, e che avendo molte cose lavorato in Valdarno come pittore secondo que’ tempi ragionevole, condottosi finalmente a Empoli a fare alcuni lavori e quivi e ne’ luoghi vicini dimorando prese moglie in Puntormo una molto virtuosa e da ben fanciulla, chiamata Alessandra, figliuola di Pasquale di Zanobi e di monna Brigida sua donna. Di questo Bartolomeo adunque nacque l’anno 1493 Iacopo, ma essendogli morto il padre l’anno 1499, la madre l’anno 1504 e l’avolo l’anno 1506, et egli rimaso al governo di monna Brigida sua avola, la quale lo tenne parecchi anni in Puntormo, e gli fece insegnare leggere e scrivere et i primi principii della grammatica latina, fu finalmente dalla medesima condotto di tredici anni in Firenze.”

Avverso a quanto scrive il Vasari c’è un’iscrizione, che si trova nel coro della chiesa fiorentina di San Lorenzo, dove si afferma che Jacopo sarebbe nato il 26 maggio 1494.

Come spesso accadeva nel medioevo e nel primo rinascimento, all’epoca in cui si consolidarono cognomi e soprannomi attribuiti anche al popolo, Pontormo deriva dal luogo dove visse per diversi anni il giovane Jacopo.

L’Orme è un torrente che nasce “nel fianco montuoso delle Vallecchie … per poi vuotarsi in Arno dopo un cammino di 9 o 10 miglia…” (dal Dizionario Geografico, Fisico, Storico della Toscana contenente tutti i luoghi del Granducato, Ducato di Lucca, Garfagnana e Lunigiana compilato da Emanuele Repetti[5] socio ordinario della Accademia dei Georgofili – Volume Quinto – Firenze 1843) nella zona dell’empolese. Sul fiume “c’è il Ponte a Orme a ponente del borgo di Pontorme”.

Con la perdita del padre (1499) e della madre (nel 1504), Jacopo e i suoi fratelli furono accuditi dai nonni materni, Pasquale di Zanobi e Monna Brigida.

Quest’ultima, probabilmente intuendo le non comuni capacità intellettuali del ragazzo, si prese cura della sua educazione e “gli fece insegnare leggere e scrivere et i primi principii della grammatica latina” (Vasari).

In seguito alla scomparsa di Pasquale di Zanobi (1506), la nonna Brigida tenne con sé Maddalena e condusse il nipote a Firenze, dove lo affidò ad un lontano parente, un non meglio precisato “Battista calzolaio”. Non è possibile stabilire con esattezza quando ebbe luogo il trasferimento di Jacopo, tuttavia un documento redatto il 24 Gennaio 1508 attesta che a tale data egli si trovava già nel capoluogo toscano sotto la tutela della Magistratura dei Pupilli, ente assistenziale che si occupava dei diritti dei minori rimasti orfani.

Grazie all’interessamento di tal Bernardo Vettori, il giovane venne introdotto nell’ambiente artistico fiorentino, e secondo le fonti dell’epoca (Vasari in primis), ebbe l’opportunità di frequentare le botteghe dei più prestigiosi artisti presenti in città.

Jacopo presumibilmente entrò nella bottega di Andrea del Sarto (1486-1530) nel 1512, e a quanto pare se ne allontanò l’anno successivo per

Pontormo: Leda e il cigno

Pontormo: Leda e il cigno (ca 1512). Firenze Galleria degli Uffizi

dissidi di ordine professionale; comunque sia, durante questo breve ma intenso apprendistato, egli portò a compimento la propria formazione pittorica ed ebbe modo di stringere un forte legame di amicizia con il coetaneo Giovan Battista di Jacopo, meglio noto come il Rosso Fiorentino (Firenze 1494 – Fontainbleu 1540), conosciuto con ogni probabilità già alla scuola di Mariotto Albertinelli (1474-1515).

Frequentò anche le botteghe di Piero di Cosimo (1461-1522), Fra Bartolomeo (1572 – 1517) e probabilmente anche di Leonardo da Vinci (1452-1519).

Andrea del Sarto fu senza dubbio il maestro più importante per Pontormo, quello nei confronti del quale la sua arte è maggiormente debitrice, tanto che ancora oggi gli studiosi non hanno trovato l’accordo sull’attribuzione di alcune opere, variamente assegnate all’uno o all’altro.

Jacopo presumibilmente entrò nella bottega di Andrea del Sarto nel 1512, e a quanto pare se ne allontanò l’anno successivo per dissidi di ordine professionale; comunque sia, durante questo breve ma intenso apprendistato, egli portò a compimento la propria formazione pittorica ed ebbe modo di stringere un forte legame di amicizia con il coetaneo Giovan Battista di Jacopo, meglio noto come il Rosso Fiorentino (Firenze 1494 – Fontainbleu 1540), conosciuto con ogni probabilità già alla scuola di Mariotto Albertinelli.

I due esordirono sulla scena artistica fiorentina collaborando alla realizzazione di alcune opere commissionate ad Andrea del Sarto, ma grazie al loro precoce talento iniziarono ben presto ad ottenere delle offerte di lavoro autonome.

Si parla di una piccola Madonna annunciata e una predella per la pala dell’Annunciazione di San Gallo di Andrea del Sarto, dipinta in collaborazione col Rosso e andata probabilmente distrutta nell’alluvione del 1557. Ne resta una descrizione vasariana: «un Cristo morto con due Angioletti che gli fanno lume con due torce e lo piangono, e dalle bande in due tondi, due Profeti, i quali furono così praticamente lavorati, che non paiono fatti da giovinetto, ma da un pratico maestro».

La sua prima opera importante la realizzò nella basilica della Santissima Annunziata a Firenze, che in quegli anni era interessata da un intenso programma di affreschi e decorazioni legati alla visita del papa Leone X (Giovanni di Lorenzo de’ Medici – 1475 – 1521). Insieme a Rosso Fiorentino, ebbe l’incarico di realizzare due lunette con storie della Vergine nel Chiostrino dei Voti della Santissima Annunziata. Pontormo realizzò la Visitazione, un affresco di quasi quattro metri.

Già in questo affresco emerge la malinconia dei volti del Pontormo (vedi il putto seduto sugli scalini in basso) e i primi cenni di pittura manierista. della quale sarà uno dei più importanti rappresentanti.

 

Il “Manierismo”

Con “manierismo” si è inteso, già nel quattrocento, attribuire uno stile particolare ad una corrente pittorica, ma anche scultorea e architettonica, che il Vasari enuncia più volte nelle sue “Vite” parlando di “maniera”, “bella maniera”, “grande maniera” o “maniera moderna”.

Proprio il Vasari, nel capitolo VIII del prologo alle “Vite”, parla degli edifici “proporzionati bene” la “… necessità che si distribuischino per lo edificio le stanze ch’abbino le lor corrispondenze di porte, finestre, camini, scale segrete, anticamere, destri, scrittoi, senza che vi si vegga errori, come sarìa una sala grande, un portico picciolo e le stanze minori; le quali, per esser membra dell’edificio, è di necessità ch’elle siano, come i corpi umani, egualmente ordinate e distribuite secondo le qualità e varietà delle fabriche, come tempii tondi, [in] otto facce, in sei facce, in croce e quadri, e gli ordini varii secondo chi et i gradi in che si trova chi le fa fabricare; perciò che, quando son disegnati da mano che abbia giudicio con bella maniera, mostrano l’eccellenza dell’artefice e l’animo dell’auttor della fabrica. Perciò figureremo, per meglio esser intesi, un palazzo qui di sotto, e questo ne darà lume agli altri edifici per modo da poter conoscere, quando si vede, se è ben formato o no.

È un po’ come quando Brunelleschi, con la sua cupola del Duomo di Firenze, ruppe la monotonia architettonica e il grigiore del gotico, tutto proteso per motivi strutturali verso l’alto, mutuando dai classici la forma sferica (Pantheon), ma abbellendola con archi sferici o a sesto e con marmi, tegole e affreschi, sfidando le leggi classiche e consuetudinarie, con “accessori” romantici, colori vivaci, lanterne sopra la cupola, eccetera.

La “bella maniera” era quindi una riappropriazione dell’arte classica per abbellirla e colorarla. Basti pensare alle meravigliose stature greche o romane a confronto con i gruppi marmorei con corpi contorti, spesso velati, in pose plastiche a volta non naturali, ma più spontanee che fanno pensare ad uno scatto fotografico che coglie un momento di una azione.

Così la pittura manierista si colora di pitture vivaci, vesti con le pieghe, corpi non immobili che parlano di movimento in un contesto colorato.

Vasari ci dice che la “maniera” è già presente in Giotto e Cimabue, attribuendo agli artisti del primo cinquecento il merito di essere arrivati ad una perfezione formale e ad un ideale di bello in grado di superare gli “antichi”, cioè i mitici artefici dell’arte classica, e la natura stessa. Vasari si raccomandò dunque, ai nuovi artisti, di riferirsi a questi modelli per acquisire la “bella maniera”.

L’opera manieristica deve inoltre contenere “la varietà di tante bizzarrie, la vaghezza de’ colori, la università de’ casamenti, e la lontananza e varietà ne’ paesi“, poi: “una invenzione copiosa di tutte le cose” (Giorgio Vasari, Vite).

 

Le opere “mature” del Pontormo

Pontormo: ritratto di Maria Salviati

Pontormo: ritratto di Maria Salviati

Vasari dà un ritratto entusiasta del giovane Pontormo, quale giovane molto promettente, una specie di bambino prodigio nella pittura; anche i grandi Raffaello e Michelangelo riconoscevano l’eccezionale talento del Pontormo e gli avevano previsto una luminosa carriera artistica. Proprio questa lo avrebbe portato successivamente, secondo Vasari, ad abbandonare i “buoni modelli” della pittura e ad avventurarsi in sperimentazioni e innovazioni che al tempo non vennero comprese e che lo stesso Vasari giudicava bizzarre, smodate, eccessive.

Oggi il giudizio di Vasari è ampiamente superato dalla critica, che vede in questi anni la fondamentale elaborazione di uno stile pittorico proprio, autonomo rispetto alla tradizione e decisamente anti-classico.

Tra le opere che meglio rappresentano questo passaggio, spiccano sicuramente i quattro pannelli per le Storie di Giuseppe ebreo (1517-1518 circa), parte di una decorazione più ampia destinata alla Camera nuziale Borgherini, assieme ad opere di Andrea del Sarto, di Francesco Granacci e del Bacchiacca.

In queste opere si nota un tentativo riuscito di rompere gli schemi tradizionali, con scene più affollate e scandite nello spazio con più complessità. Ispirandosi alle stampe nordiche che proprio allora iniziavano circolare con frequenza anche a Firenze (soprattutto di Luca da Leida e Albrecht Dürer), l’artista ruppe con la tradizione tutta italiana di organizzare l’immagine attorno a un fulcro centrale, spargendo i personaggi ai quattro angoli del dipinto, in gruppi però sempre coordinati con giudizio, in modo da guidare, anche grazie alle particolari pose dei personaggi, l’addentrarsi dell’occhio dello spettatore in profondità. Andò sperimentando inoltre l’uso di colori accesi e brillanti, in mezze tonalità inusuali.

Da questa “filosofia” pittorica Pontormo affresca il salone della Villa Medicea di Poggio a Caiano (1521),

 

 

Il Diario

Oltre al Vasari, che nelle sue “Vite” ci parla in diverse parti del Pontormo, c’è anche un Diario scritto da lui stesso che contiene numerose memorie e dal quale emerge una figura problematica, con una personalità inquieta, affetta da ipocondria e misantropia. Una figura malinconica e meticolosa che appuntava ogni dettaglio della vita quotidiana compresi i pasti.

Pontormo: una pagina del 'Diario'

Pontormo: una pagina del ‘Diario’

1554

adì 7 in domenica sera di genaio 1554 caddi e percossi la spalla e ‘1 braccio e stetti male e stetti a casa Br[onzin]o1 sei dì; poi me ne tornai a casa e stetti male insino a carnovale che fu adì 6 di febraio 1554.

adì 11 di marzo 1554 in domenica mattina desinai con Bronzino pollo e vitella e sentimi bene (vero è che venendo per me a casa io ero nel letto — era asai ben tardi e levandomi mi sentivo gonfiato e pieno — era asai bei dì), la sera cenai un poco di carne secha arosto che havevo sete e lunedì sera cenai uno cavolo e uno pesce d’uovo.

 el martedì sera cenai una meza testa di cavretto e la minestra.

el mercoledì sera l’altra meza fritta e del zibibo uno buon dato e 5 q[uattrin]i di pane e caperi in insalata.

giovedì sera una minestra di buono castrone e insalata di barbe.

giovedì mattina mi venne uno capogirlo che mi durò tucto dì e dapoi sono stato tuctavia maldisposto e del capo debole.

venerdì sera insalata di barbe e dua huova in pesce d’uovo.

sabato D[igiuno]. domenica sera che fu la sera dell’ulivo cenai uno poco di castrone lesso e mangiai uno poco d’insalata, e dovetti mangiare da tre quatrini di pane.

lunedì sera dopo cena mi sentii molto gagliardo e ben disposto : mangiai una insalata di lattuga, una minestrina di buono castrone e 4 q[uattrin]i di pane.

martedì sera mangiai una insalata di lattuga e uno pesce d’uovo.

mercoledì sancto sera 2 q[uattrin]i di mandorle e uno pesce d’uovo e noce e feci quella figura che è sopra la zucha.

giovedì sera una insalata di lattuga e del caviale e uno huovo; venne la Djuchessa] a Sancto Lo[renzo], el duca vene anco.

venerdì sera uno pesce d’uovo, della fava e uno poco di caviale e 4 q[uattrin]i di pane.

sabato sera mangiai dua huova.

domenica che fu la mattina di Pascua e la Donna andai a desinare con Bron[zino] e la sera cenavi.

lunedì sera mangiai una insalata che era di borana e uno mezo limone e 2 huova in pesce d’uovo.

martedì sera ero tucto affocato e mangiai uno pane di ramc-rino e uno p[esc]e d’uovo e una insalata e de’ fichi sechi.

mercoledì D[igiuno].

giovedì sera uno pane di r[amerin]o, uno p[esc]e d’uno huovo e una insalata e 4 q[uattrin]i di pane in tucto.

venerdì sera insalata, minestra di pisegli e uno pesce d’uovo e 5 q[uattrin]i di pane.

sabato burro, insalata, zuchero e pesce d’uovo.

adì 1 d’aprile domenica desinai con Br[onzin]o e la sera non cenai.

lunedì sera cenai uno pane bollito col burro e uno pesce d’uovo e 2 on[ce] di torta.

sabato andai a la taverna: ‘nsalata e pesce d’uovi e cacio e sentimi bene. […]

adì 9 di g[i]ugno 1554 cominciò Marco Moro a murare el coro e turare in Sancto Lorenzo.

adì 18, la sera di sancto Luca, cominciai a dormire già col coltrone nuovo.

adì 19 d’ottobre mi sentivo male cioè inf redato e dipoi non potevo riavere lo spurgho, e con gran fatica durò parecchie sere uscire di quella cosa soda della gola, come alle volte io ho hauto di state; non so s’è stato per essere durato un buon dato bellissimi tempi e mangiato tuttavia bene. e adì detto cominciai a riguardarmi un poco e duròmi 3 dì 30 once di pane, cioè 10 once a pasto, cioè una volta el dì e con poco bere: e prima adì 16 di detto imbottai barili 6 di vino da Radda. […]

 

Benché all’epoca per l’inadeguatezza delle conoscenze scientifiche, delle cure mediche e delle terapie farmacologiche contrarre anche una semplice influenza fosse un rischio potenzialmente letale, è risaputo che il Pontormo era ipocondriaco, e non a caso il manoscritto è costellato di minuziose descrizioni di malesseri.

 

Da questi passi oltre alle frequentazioni dell’artista (il pittore Agnolo di Cosimo detto il Bronzino; il mazziere Daniele di Bartolomeo, cognato del pittore Alessandro Allori, allievo del Bronzino; il letterato Benedetto Varchi; il provveditore Luca Martini; ed altri ancora) si evince che il Pontormo osservava scrupolosamente le feste comandate, e da altri emerge anche che era estremamente attento a seguire i precetti della Chiesa. Nella parte iniziale del manoscritto egli raccomanda a se stesso di “ingegnarsi per le 4 Tempora oservare e digiuni comandati” (l’artista allude ai tre giorni di digiuno – mercoledì, venerdì e sabato – che si dovevano praticare quattro volte l’anno, ovvero dopo la terza domenica d’Avvento, dopo la prima domenica di Quaresima, dopo la prima domenica di Pentecoste e dopo la festa dell’Esaltazione della Santa Croce); e non a caso in data 19 dicembre 1554 annota: “Mercoledì sera che sono le digiune – il primo giorno delle Tempora d’Avvento – non cenai”.

La domenica si recava regolarmente alla messa: il 25 agosto 1555 scrive: “…domenica desinai con Bronzino e non udi’ messa”, come a sottolineare un’eccezione; oltre alla basilica della Santissima Annunziata, che era la sua parrocchiale, frequentava anche la cattedrale: “Domenica 21 fui trovato da Bronzino in Sancta Maria del Fiore e promessi d’andare a desinare seco” (21 giugno 1556); per le feste si asteneva dal lavoro, ed in particolare in occasione di quelle del Natale del 1555 si recò in compagnia di alcuni amici in diverse chiese e santuari nei dintorni di Firenze: “Adì 26 andamo a San Francesco” – a Fiesole –; “Adì 27 andamo Bronzino e io a Monte Oliveto”; “Adì 28 andamo a Volsanminiato”; “Adì 29 domenica mattina andamo insino a San Domenico” – ancora a Fiesole –. Il 4 ottobre del 1556 in onore del poverello d’Assisi trascorse tutta la giornata a Fiesole: “4, domenica, andai a San Francesco e stetti tucto el dì”. La settimana successiva si trovava invece alla Certosa del Galluzzo, dove circa trent’anni prima aveva affrescato alcuni episodi della “Passione di Cristo”: “Adì 11, domenica, andai a Certosa e la sera cenai”.

Su tutte le altre citate nel diario spicca prepotentemente la figura del Bronzino, ma pur essendo legato all’amico ed allievo da un affetto speciale il pittore non mancava talvolta di riservargli un trattamento poco lusinghiero, dal momento che quando era di cattivo umore lo congedava in maniera scortese oppure gli si negava, come indicano inequivocabilmente due brani dello scritto, datati entrambi 1556: “Domenica venne Bronzino, Daniello e Ataviano a casa, e io comperai canne e salci per l’orto; e Bronzino mi voleva a desinare, e turbandosi mi disse: “e’ pare che voi vegnate a casa uno vostro nimico”, e lasciòmi ire” (22 marzo); “15, domenica, fu pichiato da Bronzino e poi el dì da Daniello: non so quello che si volessino” (15 marzo).

La sua ipocondria lo fece fuggire dalla città, per ritirarsi nella Certosa del Galluzzo, nei pressi di Firenze, quando si diffuse un focolaio di peste fra il 1522 e il 1523.

Accompagnato dal solo Bronzino, suo discepolo prediletto, Pontormo trovò qui non solo l’ospitalità dei Monaci, ma potè dedicarsi alla decorazione di numerose lunette del chiostro con Scene della Passione, completandone cinque su sei (l’Inchiodamento alla croce restò a livello di disegno preparatorio). In queste opere è più che mai evidente l’influenza delle incisioni di Dürer (in particolare la serie della Piccola Passione), che gli causò poi la disistima di Vasari stesso, che lo descrisse come notevolmente peggiorato rispetto alla sua gioventù: la maniera tedesca era dopotutto vista con sospetto negli anni della Controriforma in cui scriveva Vasari, scatenando ombre legate a simpatie luterane

Al termine della decorazione ad affresco l’artista realizzò una grande tela con la Cena in Emmaus, destinata al refettorio della foresteria o alla dispensa. In tale opera è rappresentato l’esatto momento in cui Gesù, nello spezzare il pane, rivela sé stesso ai due discepoli astanti: uno solleva il capo mentre l’idea sta balenando nella sua mente, l’altro versa invece il vino dalla brocca ancora inconscio.

Nel 1525 ricevette l’incarico di decorare la Cappella Capponi all’interno della piccola chiesa di Santa Felicita (famosa perché attraversata dal corridoio vasariano), rappresentando la Deposizione di Gesù (o Trasporto di Cristo al sepolcro) inserendo undici personaggi decontestualizzando lo spazio e il luogo per concentrarsi sulle forme, le espressioni con gesti enfatici e volti dolenti, sottolineati dall’uso di colori puri e da una luce irreale.

Nel 1536 fu nuovamente incaricato dalla famiglia Medici per realizzare gli affreschi nella Villa Medicea di Castello (opere perdute)

Dal terzo decennio del Cinquecento fino alla sua ultima fase artistica, Pontormo intensificò la riflessione sulle opere di Michelangelo, con la ferma volontà di riuscire a superarlo. Lunghi studi preparatori dimostrano la ricerca della perfezione formale, ma poi i risultati finali, in qualche modo, frustravano le sue aspettative.

In opere come i Diecimila martiri (1529-1530) è evidente il richiamo alla Battaglia di Cascina, con la figura dell’imperatore seduto in primo piano che ricorda il Ritratto di Giuliano de’ Medici duca di Nemours del Buonarroti nella Sagrestia Nuova. Un riferimento alla Madonna Medici si trova invece nella Madonna col Bambino e san Giovannino degli Uffizi (1534-1536 circa), mentre opere su cartone michelangiolesco sono il Noli me tangere e Venere e Amore.

Il tema del nudo in movimento caratterizzato da torsioni del corpo si ritrova nei disegni preparatori per il completamento degli affreschi del salone della villa di Poggio a Caiano, impresa affidata nel 1532 da Ottaviano de’ Medici su incarico di Clemente VII e mai portata a termine.

 

Pontormo: Vertumno e Pomona

Pontormo: Vertumno e Pomona. Villa Medici di Poggio a Caiano (ca 1519-1521)

 

Secondo la testimonianza di Vasari, Pontormo doveva rappresentare un Ercole e Anteo, una Venere e Adone e un gruppo di Ignudi che giocano a calcio fiorentino, riferimento ai recenti eventi dell’assedio, con la partita giocata sotto il fuoco nemico in piazza Santa Croce il 15 febbraio 1530. Dell’impresa restano i disegni del cosiddetto Giocatore sgambettante, collegabile a un disegno michelangiolesco di Tizio, e della sanguigna coi Due nudi affrontati, entrambi al Gabinetto dei disegni e delle stampe.

Dal 1546, il Pontormo lavorò per dieci anni, fino alla morte, alla decorazione del coro della chiesa di San Lorenzo, che era la chiesa della famiglia dei Medici. Alla morte del Pontormo, furono portati a termine dal Bronzino. Gli affreschi però sono stati distrutti nel 1738, a causa di lavori di ristrutturazione del coro

 

Il Pontormo morì molto probabilmente il 31 dicembre 1556 o il 1° gennaio 1557 ed è stato sepolto nella cappella di San Luca della basilica della Santissima Annunziata, dove a lungo aveva lavorato da giovane.

 

 

 

Pontormo

di Anselmo Pagani

 

Un giovane “figo” (come diremmo oggi) dalla folta capigliatura riccia e il corpo atletico, con indosso soltanto di un paio di slip che per foggia ed attualità non sfigurerebbero, con l’inclusione dell’indossatore, in un moderno cartellone pubblicitario di moda intima per uomo.

Ci guarda di profilo puntandoci contro l’indice della mano destra quasi a dire: “Ehi tu, ho visto che mi stai spiando! Ora esco da qui e vengo a prenderti!”, intanto che con la sinistra pare richiudere una porta non inquadrata nel disegno.

Ci sentiamo così nell’imbarazzata condizione di quanti, senza volerlo, hanno gettato un’occhiata indiscreta verso la finestra del vicino di casa, cogliendolo in un momento d’intimità casalinga che però non ha nulla di sguaiato o volgare.

Il pittore anticonformista Jacopo Carucci, nato il 24 maggio del 1494 a Pontorme, nei pressi di Empoli, e meglio conosciuto come “il Pontormo”, ha in tal modo voluto immortalarsi per i posteri in un singolare autoritratto eseguito a matita sanguigna, che pare un “selfieante-litteram, un’opera tanto moderna da sopravanzare di secoli il 1522, anno della sua realizzazione.

Rimasto orfano di padre a soli cinque anni d’età e di madre a dieci, Jacopo ebbe un’infanzia segnata da lutti e privazioni tant’è che nonna Brigida, sua ultima parente stretta rimasta in vita, l’affidò appena prima di morire anche lei alla tutela del magistrato dei “Pupilli”, gli orfanelli della Firenze dei primi anni del Cinquecento.

Tristezza innata, ricerca d’auto-isolamento, agorafobia, misoginia e insoddisfazione cronica sarebbero poi state una costante della vita del Pontormo, così come ci racconta Giorgio Vasari, il suo primo biografo che lo conobbe di persona.

Da lui infatti sappiamo che, sulle orme del babbo defunto, Jacopo a 13 anni fu messo a bottega presso vari artisti. Se non v’è alcuna certezza che il suo primo Maestro sia stato Leonardo, sicuro invece è che fece apprendistato presso Mariotto Albertinelli e poi Andrea Del Sarto.

Per il primo dipinse una “Annunciazione” che il Maestro “mostrava per cosa rara a chiunque gli capitasse a bottega”, Raffaello incluso il quale, dopo averla ammirata, “profetò di Jacopo quello che si è veduto riuscire”. Per il secondo invece nel 1513 affrescò la “Fede” e la “Carità” sull’arco del portico della SS. Annunziata, riscuotendo tanto successo da far morire d’invidialo stesso Del Sarto, che da allora preferì fare a meno di lui.

Ma ormai l’arte del Pontormo brillava di luce propria lodata anche da Michelangelo, tanto che gli ordinativi iniziarono a fioccare consentendogli di aprire una bottega presso la quale poi avviò diversi “garzoni” alla professione, il più famoso dei quali fu Agnolo Bronzino, cui sarebbe rimasto legato per tutta la vita in un rapporto affettivo travalicante i limiti della semplice amicizia.

La sua continua ricerca della perfezione l’induceva spesso a distruggere, per la disperazione dei committenti, eccellenti lavori già quasi portati a termine per poi rifarli diversi oppure trascorrere intere giornate davanti ad una parete o a una tela in contemplazione, senza mettere mano ai pennelli ma soltanto “ghiribizzando e stillandosi il cervello”, secondo quanto scrisse il Vasari. Perciò i suoi datori di lavoro, conoscendolo, intanto che lavorava preferivano affiancargli qualcuno che gli facesse da stimolo e lo risvegliasse, in caso di necessità, dai suoi sogni.

Per i Medici, coi quali il nostro intrattenne sempre ottimi rapporti in base alla massima che “un artista serve chi paga”, realizzò alcuni dei suoi capolavori, fra i quali spiccano i ritratti di “Cosimo il Vecchio”, “Cosimo I in veste di alabardiere” e ancora “Cosimo I vestito alla spagnola”.

Bellissimo, seppure molto rovinato dal tempo e dalle intemperie, è il ciclo di affreschi da lui eseguito nella Certosa del Galluzzo, luogo dove l’artista si rifugiò per sfuggire alla terribile epidemia di peste che nel 1523 si abbatté su Firenze.

La quiete, il modo di vivere dei monaci, il silenzio e la solitudine di quel luogo sospeso nel tempo e nello spazio ben si confacevano alla natura del Pontormo, che per casa aveva una sorta di soppalco al quale si accedeva soltanto da una ripida scala a pioli che lui, quando non voleva essere disturbato, provvedeva a rialzare isolandosi così anche per intere giornate.

La sua personale “Sistina” consiste però nel ciclo pittorico realizzato per la Cappella Capponi, nella chiesa fiorentina di Santa Felicita, con particolare riguardo alla bellissima “Deposizione” che costituisce uno dei capolavori del manierismo italiano col suo trionfo cromatico.

Chiesa di Santa Felicita

Firenze, la chiesa di Santa Felicita. E’ ben visibile, al di sopra degli archi di ingresso, il corridoio Vasariano.

Rientrato da Roma ricchissimo dopo avervi operato come banchiere di fiducia di Papa Leone X de’ Medici, il fiorentino Ludovico Capponi volle regalare a se stesso e alla propria Casata una cappella funeraria degna della fama che si era costruito.
Acquistò pertanto nel 1525 dai Paganelli la cappella quattrocentesca costruita su progetto di Filippo Brunelleschi all’interno della Chiesa di Santa Felicita, non distante dal bel palazzo di famiglia affacciato sul Lungarno, affidandone la decorazione al Pontormo, che era uno degli artisti più in voga nella Firenze di quegli anni.
Quest’ultimo, ispirandosi alle ricerche di Raffaello sull’illusionismo spaziale, ideò un insieme di dipinti tutti collegati fra loro da un filo narrativo comune, consistente nel dramma del sacrificio salvifico di Cristo.
Il fulcro del racconto è costituito dalla pala della “Deposizione”, anche detta “Pietà”, che insieme alla “Visitazione” rappresenta forse l’opera più significativa di questo artista unico e geniale.
Vi si vedono due gruppi di personaggi. In primo piano il corpo esanime di Cristo è sorretto da una coppia di giovani che volgono i loro sguardi sconvolti verso l’osservatore; dietro di loro, le pie donne insieme a Nicodemo, raffigurato sulla destra e ritenuto un autoritratto dell’artista, più che a compiangere il defunto paiono intente a consolare la Madonna che, sul punto di svenire, dà l’addio al figlio.
Il groviglio di figure che sembrano sospese e roteanti nell’aria, così come il loro straziante dolore che si esprime in un intreccio di mani che si cercano senza mai trovarsi in una sorta di caos mistico, conferisce all’opera un pathos straordinario.
A completamento di questa sua personale “Sistina” in miniatura, il Pontormo dipinse anche due dei quattro tondi dei pennacchi della volta raffiguranti gli Evangelisti, affidando però l’esecuzione dei restanti due all’allievo Agnolo Bronzino, che proprio in quell’occasione iniziò col Maestro una collaborazione fondata sulla stima, l’affetto e forse anche l’amore reciproci, destinati a durare per tutta la vita di quest’ultimo.
Il lavoro fu eseguito nella più totale segretezza perché il Pontormo, famoso per la bizzarria caratteriale e le sue proverbiali sfuriate, per non subire condizionamenti esterni impedì a chiunque, committente compreso, di accedere al cantiere.
Solo quando tutto fu terminato la Cappella Capponi, come ci racconta il Vasari, “fu con maraviglia di tutta Firenze scoperta e veduta”.
Tale “maraviglia”, per definire la quale i Greci utilizzavano il termine «θαύμα» (“tzauma”) traducibile piuttosto con “stordimento”, continua a distanza di quasi mezzo millennio a sopraffare gli osservatori.
Entrando in Santa Felicita infatti, al prezzo di un solo euro, si attiva l’illuminazione che, come per miracolo, offre alla nostra vista, facendola uscire dalla penombra che lo avvolge, questo capolavoro del Manierismo italiano unico nel suo genere per trionfo cromatico e simbolismi, così consentendoci di dare una sbirciata al Paradiso.
Pontormo: deposizione

Pontormo: particolare della Deposizione di Cristo

Certo quest’uomo solitario, alieno da festeggiamenti e chiassi, frugale e morigerato fu davvero un artista unico oltreché un personaggio straordinario nel senso etimologico di “fuori-dal-comune”.

Basti pensare che al culmine della sua notorietà si permise di lavorare solo per chi gli piaceva, disdegnando le ricche commissioni di certi Signori solo perché non gli andavano a genio, ma pagando con tre splendidi dipinti il muratore che gli aveva eseguito alcuni lavoretti casalinghi.

Forse il desiderio di esorcizzare la morte, che nei primi anni della sua esistenza l’aveva rapidamente privato degli affetti più cari e della quale avrebbe sempre provato un sacro terrore, lo spinse a partire dal 1554 a tenere un diario dove annotava quotidianamente tutto quanto potesse influire sulla sua salute, non solo quello che mangiava (“lunedì sera cenai con once 14 di pane, arista, uve e cacio”) ma anche i lavori cui si dedicava sino alle meno nobili fra le attività corporee.

Quando spirò a Firenze nel giorno di Capodanno del 1557, fu inumato nel chiostro della SS. Annunziata, proprio sotto la “Visitazione” da lui stesso dipinta, al termine di una cerimonia funebre cui parteciparono tutti gli artisti allora presenti in città.

 

Accompagna questo scritto l’“Autoritratto in mutande” di Jacopo Carucci detto “il Pontormo”, 1522, British Museum, Londra.

 

testo di Anselmo Pagani

Pontormo, autoritratto

 

 

Ghirigoro

 

 

BIBLIOGRAFIA

  • Luciano Berti: Pontormo e il suo tempo. Casa editrice Le lettere, Firenze 1993
  • Philippe Costamagna: Pontormo. Giunti Editore, Firenze 1998.
  • Roberto P. Ciardi e Antonio Natali: Pontormo e Rosso. Marsilio Editori, Venezia 1996
  • Giorgio Vasari: Le vite dei più eccellenti pittori, scultori et architettori.
  • Ian Chilvers: Dizionario dell’Arte. Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2008

 

 

 

SITOGRAFIA

https://it.wikipedia.org/wiki/Pontormo

https://it.wikipedia.org/wiki/Opere_del_Pontormo

https://www.treccani.it/enciclopedia/carucci-iacopo-detto-il-pontormo_(Dizionario-Biografico)/

https://www.carmignanodivino.it/it/2017/11/il-diario-del-pontormo/

https://www.ilsommopoeta.it/pontormo

https://www.settemuse.it/pittori_scultori_italiani/jacopo_da_pontormo.htm

https://www.carmignanodivino.it/it/scopri-carmignano/alla-scoperta-del-territorio/la-visitazione-del-pontormo/vita-e-opere-di-pontormo-1/

 

 

 

NOTE

 

[1] Antichi, maggiori o avoli = antenati

Castello dell’Incisa

[2] Ancisa = Incisa, località nei pressi di Firenze all’imbocco del Valdarno fiorentino, adesso comune associatosi recentemente con Figline Valdarno, che dà il nome al Castello dell’Incisa che domina la vallata, ma che oggi è nel comune di Reggello (FI) prossimo alla frazione di Leccio. Oggi viene anche chiamato “Torre del Castellano o Castello di Viesca”.è un sito militare medievale, oggi trasformato in villa. lungo la Cassia Vetus. Viene fatto risalire alla contessa Willa di Toscana, dalla quale passò a suo figlio il marchese Ugo di Toscana (? 951/3-Pistoia 1001) e da questi a Guido Guerra (1220 circa – Montevarchi, ottobre 1272), personaggio dell’importante famiglia feudataria dei Conti Guidi (furono una delle maggiori casate medioevali dell’Italia centrale). Diplomi imperiali del 967, del 1191 (di Enrico IV) e del 1220 (di Federico II) confermarono questo possedimento.

[3] Valdarno di sopra ovvero a monte di Firenze lungo l’Arno.

[4] Francesco Petrarca – Arezzo, 20 luglio 1304 – Arquà, 19 luglio 1374

[5]  Emanuele Repetti: Carrara, 3 ottobre 1776 – Firenze, 12 ottobre 1852