DANTE: la vita, le passioni e la lingua

Biografia

             Durante di Alighiero degli Alighieri o Aldighieri, più noto come Dante, è nato a Firenze nel 1265 (fra il 21 maggio e il 21 giugno) ed è morto a Ravenna 13 settembre 1321 all’età di 56 anni.

È stato un uomo politico e uno scrittore, reso immortale dalla sua “Commedia”. Ha vissuto gran parte della sua vita legato alla sua passione politica, prima come esponente delle famiglie “importanti” di Firenze, assumendo anche ruoli nella amministrazione della città (priore e poi ambasciatore) come membro della parte Guelfa, e poi come esule quando, essendosi schierato con la parte perdente dei Guelfi (i Bianchi), venne bandito dalla città.

Ho premesso la figura di politico a quella di scrittore, non perché sia famoso per la prima, ma perché probabilmente la seconda non sarebbe stata così grande senza la passione e le pene che Dante ha dovuto patire durante la sua vita per le sue scelte politiche.

La Firenze di allora era una città dai sentimenti molto forti e dalle divisioni nette e spesso cruente, che non perdonavano niente ai perdenti, costringendoli spesso alla fuga dalla città, se non alla morte.

Scarsissimi sono gli accenni di Dante ai suoi stretti congiunti; sappiamo che fu battezzato nel battistero di San Giovanni (Inferno XIX 17), come quasi tutti i fiorentini; luogo mitico a cui sempre andrà il suo pensiero; luogo poetico identificato con la stessa sua Firenze dove sperava di tornare per essere incoronato poeta.

Divenuto da fanciullo orfano di madre, Dante trascorre l’infanzia in compagnia di una sorella maggiore “la donna giovane gentile … la quale era meco di propinquissima sanguinitade congiunta” (Vita Nova XXIII). Ebbe un fratello, Francesco ed una sorella, Tana (Gaetana), nati dalle seconde nozze del padre con Lapa di Chiarissimo Cialuffi.

Dante, che da giovane disprezzava la nobiltà, con l’età e l’esilio si ricredette e rivendicò la nobiltà grazie al trisavolo, Cacciaguida[1] fatto cavaliere da Corrado III[2].

Il 1° maggio del 1274, all’età di nove anni, incontrò la figliuola di Folco Portinari, “fanciulla di otto anni circa, e l’amò” (cfr. Niccolò Tommaseo[3] nella “Vita di Dante” quale prefazione alla “Divina Commedia” del 1933, in bibliografia n.2). Era l’incontro fatale con Beatrice, al secolo Bice di Folco Portinari[4], sposata a Simone de’ Bardi e morta l’8 giugno 1290.

Da una passeggera infedeltà alla memoria di lei nasce in Dante il proposito di celebrarla più solennemente di quel che prima non avesse fatto con le sue rime sparse, raccogliendo appunto tali rime e collegandole col racconto dell’intera vicenda del suo amore. Nasce così (circa 1292-93) la Vita nuova (v.), in cui Beatrice appare come guida a Dio non solo di Dante ma di tutti gli animi gentili.

Dante aveva studiato grammatica e filosofia probabilmente presso i francescani di Santa Croce, retorica forse con Brunetto Latini e a Bologna (probabilmente nel 1287).

Famiglia guelfa, e guelfo maestro ebbe Dante, il Latini[5] … Della gioventù spese gran parte in istudi severi sui Padri della Chiesa, Aristotile e la sua scuola, i filosofi morali, e i poeti di Roma. Né le scienze naturali neglesse. Nella lettura di un libro nuovo si profondava tanto da non accorgersi di moltitudine che schiamazzasse in gran folla. I poeti provenzali, francesi e italiani conosceva; e d’ogni cosa traeva occasione e materia per far più ricco il concetto e il dire suoi“ dice Niccolò Tommaseo (cfr bibliografia n.2).

Quindi quello che ci disegna Tommaseo è un giovane sprofondato nell’amore per la letteratura classica, i filosofi e scrittori di ogni dove. Per quell’epoca questo voleva dire avere una grande biblioteca e ricchezza, oppure andare a ricercare questi testi in altri luoghi, come i francescani di Santa Croce e i frequentando le scuole organizzate dai domenicani di Santa Maria Novella dove molti testi erano conservati.

Cominciò a poetare ben presto; ai suoi 18 anni risale, secondo il suo racconto, il primo sonetto databile che di lui ci rimanga, in onore di Beatrice. Si è ormai d’accordo nel ritenere storica la personalità di lei, che è con buon fondamento identificata in Bice di Folco Portinari, sposata a Simone de’ Bardi e morta l’8 giugno 1290.

La morte di Beatricelo lascia percosso di tanto dolore, che per lungo spazio di tempo parve come tra dissennato e salvatico”. E pensò forse allora a rendersi frate: certo, allora o poi, s’ascrisse ai terziarii di S.Francesco d’Assisi, santo da lui con sì affettuosa venerazione cantato; e con quell’abito indosso volle, a quanto si narra, morire.” (cfr bibliografia n.2).

Dopo la morte di Beatrice scrisse la “Vita Nuova” (1292- 1294), nella quale promette un’opera maggiore in dell’Angelo suo. Lo stesso Dante, però, ci testimonia che il testo più antico risale al 1283, quando egli aveva diciotto anni, e che il più tardo risale al giugno del 1291, anniversario della morte di Beatrice.

Altri sonetti sono probabilmente assegnabili al 1293 (in ogni caso le poesie non possono essere datate oltre il 1295): si può dunque ipotizzare con relativa certezza che le diverse componenti dell’opera sono frutto del lavoro di circa un decennio, culminato nella stesura vera e propria dell’opera in questione. Il testo che ne risulta è quindi una sorta di assemblaggio delle diverse poesie scritte in varie fasi della vita di Dante – alcune delle quali però sono state composte di certo contemporaneamente al testo in prosa – e che vengono così riunite in una sola opera (appunto la Vita Nuova) a partire dal 1290, anno di morte di Beatrice. (cfr. bibl./sitogr. n.5)

Il matrimonio di Dante

Il matrimonio di Dante si è ammantato di mistero dopo che sono stati analizzati numerosi documenti relativi al contratto pre-matrimoniale e al matrimonio vero e proprio proclamato 15 anni dopo.

Dante nel 1292 prese in moglie Gemma Donati (1265? – 1333-42?) figlia di Manetto Donati[6], e cugina di Corso Donati[7], potente famiglia guelfa fiorentina che dopo diventò acerrima nemica di Dante quando i guelfi si divisero a loro volta in bianchi (Dante) e neri (Donati).

Il matrimonio però era già stato stabilito con un atto del 1277-78 (cfr. bibl. n.16), che doveva essere un accordo pre-matrimoniale, ma che taluni indicano invece come vero e proprio atto di matrimonio. A quell’epoca Dante aveva 12 anni e Gemma forse qualcosa in meno.

Secondo la Chiesa, e per il diritto civile dell’epoca, entrambi erano impuberes, non avendo ancora raggiunto l’età della pubertà legale (che non indica la reale capacità di generare) fissata a 12 anni per le femmine e 14 anni per i maschi. Avevano, semmai, soltanto l’età legale per la promessa, avendo già compiuto 7 anni, età minima secondo la quale, per il diritto canonico era possibile, sia ai maschi che alle femmine, stipulare una promessa di matrimonio.

Queste due ipotesi, matrimonio celebrato nel 1278 e consumato più tardi, oppure promessa di matrimonio (1278) seguita dal matrimonio celebrato intorno al 1283-1285 (o nel 1292 come dicono altri), sono entrambe problematiche. La prima ipotesi solleva una questione giuridica che nessun biografo moderno ha mai posto: quella dell’incapacità legale di Gemma e Dante a contrarre matrimonio per impedimento di età. La seconda pone un problema “tecnico” più facilmente risolvibile: l’instrumentum dotis del 1277-1278 che Gemma esibì nell’estate 1329 per certificare i suoi diritti dotali davanti all’ufficiale sopra i beni dei ribelli non può in alcun caso essere ritenuto l’atto notarile rogato al momento di una promessa di matrimonio.

Dante, nei pochi anni di convivenza con la moglie prima dell’esilio (1283/1292 – 1301), ebbe tre figli: Jacopo, Pietro, Antonia e un possibile quarto, Giovanni. Dei tre certi, Pietro Alighieri fu giudice a Verona e l’unico che continuò la stirpe degli Alighieri, in quanto Jacopo Alighieri scelse di seguire la carriera ecclesiastica, mentre Antonia Alighieri divenne monaca con il nome di Sorella Beatrice, sembra nel convento delle Olivetane a Ravenna.

La vita politica di Dante

Poco dopo il matrimonio, Dante cominciò a partecipare come cavaliere ad alcune campagne militari che Firenze stava conducendo contro i suoi nemici esterni, tra cui Arezzo (battaglia di Campaldino[8]) e Pisa (presa di Caprona, 16 agosto 1289).

Successivamente, nel 1294, avrebbe fatto parte della delegazione di cavalieri che scortò Carlo Martello d’Angiò (figlio di Carlo II d’Angiò) quando questi si trovava a Firenze.

Dante si dedicò all’attività politica a partire dagli anni successivi al 1290, in un periodo quanto mai convulso per la Repubblica fiorentina.

Quando fra il 1293 e il 1295 il priore Giano della Bella[9] riuscì a far promulgare, dal Gonfaloniere gli “Ordinamenti di giustizia[10]”, che esclusero i magnati dal potere politico, Dante non potè avvicinarsi al governo della città, ma dopo il 1295 venne concesso, a chi era iscritto ad una Arte, di poter partecipare alla vita politica della città.

Dante si iscrisse quindi all’Arte dei Medici e degli Speziali, probabilmente come cultore di studi filosofici, e fra il 1295 e il 1302 ebbe vari uffici, come membro del Consiglio dei Cento, dal maggio al settembre 1296, quello di Priore fra il 15 giugno e il 15 agosto del 1300.

Quest’ultimo incarico in particolare aveva il compito di opporsi alle intromissioni nella vita pubblica di Firenze di papa Bonifacio VIII che, col pretesto della vacanza dell’impero, e contando sulle discordie cittadine, mirava al dominio sulla Toscana.

Notevole, nel priorato di Dante, fu anche il provvedimento preso, pare per suo consiglio, di bandire da Firenze i capi delle due fazioni, a seguito di un assalto dei Neri ai Consoli delle Arti, e alla successiva violenta reazione dei Bianchi.

Fra l’altro, fra i Bianchi, era compreso anche Guido Cavalcanti[11], il “primo” degli amici del poeta, com’egli stesso lo chiamava nella Vita nuova.

Questo provvedimento fu condiviso anche da Dino Compagni[12], mercante, scrittore, storico e politico fiorentino, che evitò successivamente l’esilio soltanto perché era stato priore l’anno precedente e non poteva essere condannato.

Dopo il priorato, Dante continuò ad avere uffici, e vari documenti restano della sua azione politica, in senso antiangioino e antipapale.

Durante il 1301 Dante faceva parte del Consiglio dei 100 e ci sono numerose testimonianze scritte (verbali) di suoi interventi contro le richieste del papa Bonifacio VIII di inviare 100 cavalieri in Maremma contro la famiglia Aldobrandeschi che governava parte di quelle terre (cfr. bibl.n.1 pagg 146 e segg.).

Ma insieme alle trascrizioni dei verbali, nelle sedute del Consiglio, si trovano anche omissioni accanto al suo nome e ai suoi interventi. Pare quindi che la gestione del Consiglio, ormai lacerata nelle due parti, fosse già indirizzata verso i neri e l’influenza del papa, con l’individuazione degli oppositori per la successiva eliminazione.

Ai primi di novembre del 1301 Carlo di Valois[13], fratello del re di Francia, fa il suo ingresso a Firenze con 1200 cavalieri, ufficialmente chiamato dal papa e in transito per recarsi dal re di Napoli, Carlo II d’Angiò, per aiutarlo nella guerra contro gli Aragonesi in Sicilia.

In realtà Carlo di Valois ne approfittò per favorire i guelfi neri ed eliminare l’opposizione dei guelfi bianchi, dei quali Dante faceva parte.

Dino Compagni, da storico protagonista e cronista dell’epoca, che in quei tempi è stato priore a Firenze, recita nella sua “Cronica fiorentina”:

Non v’indugiate, miseri, che più si consuma in uno di nella guerra, che molt’anni non si guadagna in pace; e picciola è quella favilla, che a distruzione mena un gran regno.

            Divisi così i cittadini di Firenze, cominciarono a infamare l’un l’altro per le terre vicine, e in corte di Roma a papa Bonifazio, con false informazioni: e più pericolo feciono le parole falsamente dette in Firenze, che le punte dei ferri. E tanto feciono col detto Papa, dicendo che la città tornava in mano de’ Ghibellini e ch’ella sarebbe ritegno de’ Colonnesi, e la gran quantità de’ fiorini mischiata colle false parole; che, consigliato d’abbattere il rigoglio de’ Fiorentini, promise di prestare a Guelfi neri la gran potenzia di Carlo di Valois de’ Reali di Francia (il quale era partito di Francia per andare in Cicilia contro a Federico d’Arraona), al quale scrisse, lo voleva fare paciaro in Toscana contro i discordanti dalla Chiesa. Fu il nome di detta commissione è molto buono, ma il proponimento era contrario, perché voleva abbattere i Bianchi e innalzare i Neri, e fare i Bianchi nemici della casa di Francia della Chiesa.”

In sostanza Dino Compagni ci testimonia le tresche e le congiure della parte che vincerà, grazie all’intervento esterno a Firenze del papa Bonifacio VIII e della Francia[14] attraverso Carlo di Valois.

In questo contesto alcuni storici fanno confusione fra l’ambasceria a Roma del 1301, alla quale il papa disse “Perché siete voi così ostinati? umiliatevi a me. Ciò vi dico in verità, io non ho altra intenzione che di vostra pace. Tornate indietro due di voi, e abbiano la mia benedizione se procurano che sia umidità la mia volontà”, pensando che il terzo trattenuto fosse Dante Alighieri che invece era ambasciatore in Roma l’anno successivo, come testimonia sempre Dino Compagni:

            “Nel mese d’aprile 1302, avendo fatti richiedere molti cittadini Ghibellini, e Guelfi di parte bianca, condannò gli Uberti, la famiglia degli Scolari, dei Lamberti, degli Abati, Soldanieri, Rinaldeschi, Migliorelli, Tebaldini: e bandì e confinò a tutta la famiglia de’ Cerchi, Messer Baldo, Messer Biligiardo, Baldo di Messer Talano e Baschiera, Tosinghi; messer Goccio e il figliuolo, Corso di Messer Forese, e Baldinaccio Adimari; Messer Vanni de’ Mozzi, messer Manetto e Vieri Scali, Naldo Gherardini, i conti da Gangalandi, messer Neri da Gaville, messer Lapo Saltarelli, messer Donato di messer Alberto Ristori, Orlanduccio Orlandi, Dante Allighieri che era Ambasciatore a Roma, i figlioli di Lapo Arrighi i Ruffoli, gli Angelotti, gli Ammannati, Lapo del Biondo e’ figliuoli, Giovangiacotto Malespini, i Tedaldi, il Corazza Ubaldini, ser Petrarca di ser Parenzo dall’Ancisa, notaio alle riformagioni; Masino Cavalcanti e alcuno suo consorto; Messer Betto Gherardini, Donato e Tegghia Finiguerra, Nuccio Galigai,  e Tignoso de’ Macci, e molti altri, che furono più d’uomini seicento i quali andorono stentando per lo mondo, chi qua e chi là.” (cfr. bibl. n.17)

 

Dino Compagni - Cronica fiorentina

La pagina della “Cronica fiorentina” di Dino Compagni nella quale si cita Dante Alighieri fra gli esiliati da Firenze

 

Dino Compagni, che è sempre stato teso a ricomporre i dissidi e le divisioni fra le parti, testimonia come i priori e i Bianchi cercarono sempre il dialogo e una negoziazione con il papa (forse evidenziando una debolezza più che una vera volontà di pace), mentre i neri, forti della presenza di Carlo di Valois, diffusero la violenza in città e iniziarono gli arresti dei guelfi bianchi proprio ad opera delle truppe armate del francese. Contemporaneamente rientrarono diversi esiliati neri fra i quali il temibile e cruento Corso Donati. Le violenze, con torture, uccisioni, saccheggi e distruzioni proseguirono per diversi giorni.

Anche Dante subì ingenti danni da queste scorribande. Gli furono rubate tutte le cose dalla sua casa e danneggiate e bruciate alcune sue proprietà anche fuori dal cerchio delle mura della città.

Quindi Dante, essendo a Roma al momento della condanna all’esilio, probabilmente non tornò più nella sua città. Una prima sentenza, del 17 gennaio 1302, lo condannò, sotto l’accusa, tra l’altro, di baratteria, allora comunemente usata contro gli avversari politici, a una multa, al confino e all’esclusione dagli uffici. Non essendosi presentato, nella successiva sentenza del 10 marzo (o di aprile come dice il Compagni), il Comune lo condannò all’esilio perpetuo, con “minaccia di morte se fosse venuto in potere del comune”.

Qui iniziò il pellegrinare di Dante da esiliato, dapprima nei dintorni di Firenze, tramando anche con alcuni Ghibellini, e poi probabilmente rassegnandosi, per altre regioni d’Italia.

 

L’Esilio

Tale fu il contrasto con i Guelfi neri, capitanati proprio dalla famiglia della moglie (Donati), che, con l’esilio, Dante fu costretto a lasciare la moglie a Firenze e il Boccaccio[15] testimoniò che “Gemma gli fosse discara”. Confessa infatti ella stessa che, durante l’esilio del marito, faticò a mantenere i suoi possessi dalla rabbia cittadina, e da questa rabbia (aizzata proprio dalla famiglia del padre) a salvare se stessa e anche i “figliuoli piccoli sostentati” (cfr. bibl.2).

Nell’agosto del 1329 (otto anni dopo la morte di Dante), il nome di Gemma Donati compare in un registro delle sovvenzioni di grano o di denaro assegnate, tra l’estate e il mese di ottobre di quell’anno, alle vedove di condannati e ribelli le cui doti erano ancora incluse nei beni confiscati al loro defunto marito.

Dante in vita, sia a Firenze che nell’esilio “non ne fa motto, perché parlare di cose domestiche a lui pareva atto di debole vanità. E neppure de’ figli fa cenno; non li amò forse? Ma troppo è vero ch’altre donne egli amò nell’esilio: una fanciulla di Lucca, Madonna Pietra degli Scrovigni di Padova, e vogliono ch’altre. …così possiam credere che le affezioni … alleviarono, variando, i suoi tanti dolori, non gli cancellassero dal cuore il nome di Gemma.” (cfr. bibl. n.2)

In realtà Boccaccio insinua che la relazione non fosse felice e che Dante, rassicurato che la moglie provenisse dalla famiglia dei neri vincenti (Corso Donati), lasciò essa e i figli in balìa di Firenze e dei fiorentini, che invece non la risparmiarono.

             “Uscito adunque in cotal maniera Dante di quella città, della quale egli non solamente era cittadino ma n’erano li suoi maggiori stati reedificatori, e lasciatavi la sua donna, insieme con l’altra famiglia, male per picciola età alla fuga disposta, di lei sicuro, perciò che di consanguinità la sapeva ad alcuno de’ prencipi della parte avversa congiunta, di se medesimo or qua or là incerto, andava vagando per Toscana.” (Boccaccio cfr. bibl. n.18)

             La fase iniziale dell’esilio lo trascorse vicino a Firenze, incontrandosi anche con altri esuli di parte bianca e persino con alcuni ghibellini. Nel giugno del 1302 sottoscrisse, a San Godenzo al Mugello[16] un atto impegnativo a risarcire gli Ubaldini potenti signori locali, degli eventuali danni che potevano derivargli da una guerra contro Firenze; fu poi, nel 1303, prima a Forlì, ospite di Scarpetta degli Ordelaffi[17], e poi a Verona da Bartolomeo I della Scala[18] per sollecitare appoggi alla causa dei Bianchi.

La morte nel 1304 di Bonifacio VIII e l’invio a Firenze come “paciaro” del cardinale Nicolò da Prato, al quale Dante spedirà la sua I Epistola, accendono le speranze di una soluzione pacifica, fallita però per l’intransigenza dei Neri. In tale congiuntura si matura la frattura tra Dante, che decide di far “parte per se stesso”, e gli altri fuoriusciti propensi a tentare comunque un’avventurosa soluzione militare, che si tradurrà nella rovinosa Battaglia della Lastra.

Dalla seconda metà del 1304 cominciano le peregrinazioni di Dante attraverso le corti dell’Italia centro-settentrionale: fu prima a Treviso, ospite di Gherardo da Camino, poi nel 1305 a Bologna, nel 1306 a Padova, a Venezia, nella marca Trevigiana, per approdare alla fine dello stesso anno in Lunigiana dai conti Malaspina. Ospite di Guido da Battifolle nel Casentino, durante il 1307, passerà poi a Lucca, ospite forse di una Gentucca, ricordata nel Purgatorio (canto XXIV 37).

Boccaccio, sempre nel suo “Trattatello” (cfr. bibl. n.18), riassume così alcuni suoi soggiorni:

            “Egli, oltre al suo stimare, parecchi anni, tornato da Verona (dove nel primo fuggire a messer Alberto della Scala n’era ito, dal quale benignamente era stato ricevuto), quando col conte Salvatico in Casentino, quando col marchese Morruello Malespina in Lunigiana, quando con quegli della Faggiuola ne’ monti vicini ad Orbino, assai convenevolmente, secondo il tempo e secondo la loro possibilità, onorato si stette. Quindi poi se n’andò a Bologna, dove poco stato n’andò a Padova, e quindi da capo si ritornò a Verona.”

Ma Boccaccio va oltre narrando di un viaggio di Dante in Gallia fino a Parigi:

Ma poi ch’egli vide da ogni parte chiudersi la via alla tornata, e di dì in dì più divenire vana la sua speranza, non solamente Toscana, ma tutta Italia abbandonata, passati i monti che quella dividono dalla provincia di Gallia, come poté, se n’andò a Parigi; e quivi tutto si diede allo studio e della filosofia e della teologia, ritornando ancora in sé dell’altre scienzie ciò che forse per gli altri impedimenti avuti se ne era partito.”

Questo di cui parla Boccaccio è un viaggio non provato da alcun documento storico, anche se alcune descrizioni dantesche della necropoli di Arles e delle paludi del delta del Rodano (Camargue) fanno pensare ad un suo soggiorno presso la corte papale ad Avignone.

Disceso nel 1310 Arrigo VII in Italia, le speranze di Dante si riaccendono. Finalmente l’imperatore veniva in Italia, ben risoluto a porre fine alle discordie, ad affermare la sua autorità suprema: rex pacificus.

Qui Dante manifesta il suo lato ghibellino, rinforzato dai suoi passati contro Bonifacio VIII, pur essendo in Firenze decisamente schierato dalla parte Guelfa per il papa contro i ghibellini che erano per l’imperatore.

In quegli anni la netta contrapposizione fra Imperatore e Papa si affievolisce e Dante scrive un’epistola ai re, principi e popoli d’Italia. Quindi si reca a Milano per rendere omaggio all’Imperatore che veniva incoronato re d’Italia con la Corona Ferrea il 6 gennaio 1311, giorno dell’Epifania.

I Guelfi toscani si rifiutarono di partecipare alla cerimonia e così ebbe inizio la preparazione all’opposizione ai sogni imperiali di Arrigo VII.

Quindi proprio la guelfa Firenze resiste, anzi è a capo della resistenza italiana: nel marzo il poeta scrive dal Casentino un’epistola contro gli “scelleratissimi” fiorentini; nell’aprile, un’altra epistola allo stesso Arrigo, perché non indugi nell’Italia del Nord. Egli è intanto escluso dall’amnistia del 1311 (la cosiddetta riforma di Baldo d’Aguglione).

Quando Arrigo VII attacca Firenze (settembre 1312), il poeta non prende tuttavia le armi contro la patria, resta nel Casentino, forse presso il conte di Battifolle.

Era ovvio che la milizia della città e la cavalleria guelfa non potevano competere con l’esercito imperiale in una battaglia aperta. Siena, Bologna, Lucca e altre città inviarono uomini per aiutare nella difesa delle mura. Così ebbe inizio l’assedio di Firenze: l’imperatore disponeva di circa 15.000 fanti e 2.000 cavalieri, contro 64.000 difensori. Firenze fu in grado di mantenere aperta ogni porta, tranne quella dalla parte dell’imperatore assediante, e mantenne tutte le sue rotte commerciali funzionanti.

Per sei settimane Arrigo VII batté le mura di Firenze e alla fine fu costretto ad abbandonare l’assedio. Tuttavia, entro la fine del 1312, aveva soggiogato gran parte della Toscana e aveva trattato i suoi nemici sconfitti con grande indulgenza[19].

Ma nel 1313 (venerdì 24 agosto) Arrigo VII di Lussemburgo trovò la morte, probabilmente per malaria, nella chiesa di San Pietro a Buonconvento (nei pressi di Siena).

La morte di Arrigo VII cancella ogni residua speranza in Dante di un possibile ritorno a Firenze, quindi torna a Verona, ospite questa volta di Cangrande.

Nel 1314, dopo la morte di Clemente V, Dante scrisse un’altra epistola, religioso-politica, diretta ai cardinali, che vennero eloquentemente esortati a soccorrere Roma, priva dei suoi due soli, il papa e l’imperatore. Invoca l’elezione di un papa italiano, che riporti a Roma la sede pontificia[20].

Dante scrisse un’ultima lettera diretta “all’amico fiorentino”, inteso come cittadini di Firenze, a seguito di un nuovo Bando che gli avrebbe consentito di ritornare in città a costo di alcune umilianti formalità. In questa lettera rifiuta l’invito di amici e parenti.

Sempre nel 1315, dopo la sconfitta di Montecatini, Firenze tramutò in confino le condanne capitali dei meno pericolosi di coloro ai quali era stato tolto il bando dell’esilio. Ma anche questa volta Dante non accettò, con la conseguenza che il 6 novembre fu nuovamente condannato a morte, e questa volta insieme coi figli, che ormai avevano superato i 14 anni.

 

Diego Martelli (Firenze 1839, Castiglioncello – LI – 1896 – critico d’arte e noto mecenate della corrente pittorica dei Macchiaioli) ci racconta che: “Nel 1265 nasceva Dante; a pochi anni di distanza nasceva il pastore di Bondone, Giotto. Il Guerrazzi (Francesco Domenico GuerrazziLivorno 1804 – Cecina – LI – 1873 – è stato un politico e scrittore italiano), commentando alcuni lavori di Giotto, con quella sua splendida ed immaginosa facondia, dice che le nostre preghiere, le preghiere degli umani, quando salgono dalla terra al cielo vanno su faticosamente e tremanti, in modo che arrivano all’empireo stanche e rovinate dal lungo cammino; là sono raccolte degli angeli della misericordia che le presentano al Signore. Egli quando le vuole esaudite abbassa il ciglio alla terra e guarda una madre; e con quello sguardo, dice il Guerrazzi, infonde tale una virtù nell’alvo materno che cotesto felice portato ritraendo in sé parte grandissima della divinità esce a suo tempo al mondo per conforto ed onore della specie umana. In questo modo e per questa causa nacquero Dante e Giotto. E infatti Giotto, che fu di Dante amicissimo, col quale certamente s’incontrò mentre l’uno peregrinava per le sue sventure, e l’altro peregrinava chiamato dai grandi a decorare sontuosi edifici, fu di conforto all’esule che poté rivedere l’amico pittore e parlare con lui di cose divine d’arte e di patria.”

 

A questo punto il pellegrinaggio di Dante lo portò di là dall’Appennino in quel di Ravenna dove era signore Guido Novello da Polenta,[21] qui Dante molto probabilmente ebbe una cattedra di poesia e retorica.

Boccaccio (cfr, bibl. n.18) ci ricorda così quel periodo:

E come che in una parte e in altra più cose facesse, assai ne ordinasse e molte di farne proponesse, ogni cosa ruppe la troppo avacciata morte di lui: per la qual morte generalmente ciascuno che a lui attendea disperatosi, e massimamente Dante, sanza andare di suo ritorno più avanti cercando, passate l’alpi d’Appennino, se ne andò in Romagna, là dove l’ultimo suo dì, e che alle sue fatiche doveva por fine, l’aspettava.

Era in que’ tempi signore di Ravenna, famosa e antica città di Romagna, uno nobile cavaliere, il cui nome era Guido Novel da Polenta; il quale, ne’ liberali studii ammaestrato, sommamente i valorosi uomini onorava, e massimamente quegli che per iscienza gli altri avanzavano. Alle cui orecchie venuto Dante, fuori d’ogni speranza, essere in Romagna, avendo egli lungo tempo avanti per fama conosciuto il suo valore, in tanta disperazione, si dispose di riceverlo e d’onorarlo.

 (…)

             Concorrendo adunque i due voleri ad un medesimo fine, e del domandato e del domandatore, e piacendo sommamente a Dante la liberalità del nobile cavaliere, e d’altra parte il bisogno strignendolo, senza aspettare più inviti che ‘l primo, se n’andò a Ravenna, dove onorevolmente dal signore di quella ricevuto, e con piacevoli conforti risuscitata la caduta speranza, copiosamente le cose opportune donandogli, in quella seco per più anni il tenne, anzi infino a l’ultimo della vita di lui.”

Dante quindi trascorse gli ultimi anni della sua vita ad insegnare e “…fece più scolari in poesia e massimamente nella volgare…” (bibl. n.18), nonostante Giovanni del Virgilio[22] lo esortasse a scrivere e insegnare in latino anziché in volgare.

Dante così rimase fedele e coerente con le sue due più importanti vocazioni che ebbe in vita: non cedette alle richieste di rinnegare le sue idee politiche rinunciando al ritorno a Firenze, come non cedette alle sue convinzioni che il volgare, la parlata fiorentina, fosse la lingua italiana del futuro.

Nelle prime ore della notte fra il 13 e il 14 settembre del 1321 Dante morì a Ravenna.

La tomba di Dante

Dante trovò inizialmente sepoltura in un’urna di marmo posta nella chiesa ove si tennero i funerali. Quando la città di Ravenna passò poi sotto il controllo della Serenissima, il podestà Bernardo Bembo (padre del ben più celebre Pietro) ordinò all’architetto Pietro Lombardi, nel 1483, di realizzare un grande monumento che ornasse la tomba del poeta. Ritornata la città, al principio del XVI secolo, agli Stati della Chiesa, i legati pontifici trascurarono le sorti della tomba di Dante, la quale cadde presto in rovina.

Nel corso dei due secoli successivi furono compiuti solo due tentativi per porre rimedio alle disastrose condizioni in cui il sepolcro versava: il primo fu nel 1692, quando il cardinale legato per le Romagne Domenico Maria Corsi e il prolegato Giovanni Salviati, entrambi di nobili famiglie fiorentine, provvidero a restaurarla.

Nonostante fossero passati pochi decenni, il monumento funebre fu rovinato a causa del sollevamento del terreno sottostante la chiesa, cosa che spinse il cardinale legato Luigi Valenti Gonzaga a incaricare l’architetto Camillo Morigia, nel 1780, di progettare il tempietto neoclassico tuttora visibile.

I resti mortali di Dante furono oggetto di diatribe tra i ravennati e i fiorentini già dopo qualche decennio la sua morte, quando l’autore della Commedia fu “riscoperto” dai suoi concittadini grazie alla propaganda operata da Boccaccio.

Se i fiorentini rivendicavano le spoglie in quanto concittadini dello scomparso (già nel 1429 il Comune richiese ai Da Polenta la restituzione dei resti), i ravennati volevano che rimanessero nel luogo dove il poeta morì, ritenendo che i fiorentini non si meritassero i resti di un uomo che avevano dispregiato in vita.

Per sottrarre i resti del poeta a un possibile trafugamento da parte di Firenze (rischio divenuto concreto sotto i papi medicei Leone X e Clemente VII), i frati francescani tolsero le ossa dal sepolcro realizzato da Pietro Lombardi, nascondendole in un luogo segreto e rendendo poi, di fatto, il monumento del Morigia un cenotafio.

Quando nel 1810 Napoleone ordinò la soppressione degli ordini religiosi, i frati, che di generazione in generazione si erano tramandati il luogo ove si trovavano i resti, decisero di nasconderle in una porta murata dell’attiguo oratorio del quadrarco di Braccioforte.

Le spoglie rimasero in quel luogo fino al 1865, allorché un muratore, intento a restaurare il convento in occasione del VI centenario della nascita del poeta, scoprì casualmente sotto una porta murata una piccola cassetta di legno, recante delle iscrizioni in latino a firma di un certo frate Antonio Santi (1677), le quali riportavano che nella scatola erano contenute le ossa di Dante.

Effettivamente, all’interno della cassetta fu ritrovato uno scheletro pressoché integro; si provvide allora a riaprire l’urna nel tempietto del Morigia, che fu trovata vuota, fatte salve tre falangi, che risultarono combaciare con i resti rinvenuti sotto la porta murata, certificandone l’effettiva autenticità.

La salma fu ricomposta, esposta per qualche mese in un’urna di cristallo e quindi ritumulata all’interno del tempietto del Morigia, in una cassa di noce protetta da un cofano di piombo.

Nel sepolcro di Dante, sotto un piccolo altare si trova l’epigrafe in versi latini dettati da Bernardo da Canaccio per volere di Guido Novello, ma incisi soltanto nel 1357:

«Iura Monarchiae, Superos Flegetonta, lacusque Lustrando cecini, voluerunt fata quousque. Sed quia pars cessit melioribus hospita castris Auctoremque suum petiit feliciter astris, Hic clauditur Dantes, patriis exterris ab oris, Quem genuit parvi Florentia mater amoris.»

 «I diritti della monarchia, gli dei superni e la palude del Flegetonte visitando cantai finché volle il destino. Poiché però l’anima andò ospite in luoghi migliori, ed ancor più beata raggiunse tra le stelle il suo Creatore, qui sta racchiuso Dante, esule dalla patria terra, che generò Firenze, madre di poco amore.»

(da Wikipedia cfr bibliografia e sitografia n.5)

 

 

La Commedia

La Commedia è forse una delle opere scritte più conosciute al mondo ed è sicuramente una delle più grandi per numerosi motivi.

È il primo componimento scritto interamente in italiano volgare, ovvero la prima rottura con il latino nella patria di questa lingua, che aveva dominato i popoli dell’Europa d’Occidente per circa 1500 anni.

Dante, con grande coraggio, capisce che per parlare al popolo bisogna usare la sua lingua, quella che discende sì dal latino, ma che da esso si è allontanata sensibilmente.

Quel volgare che parla correntemente il popolo, ovvero la maggioranza delle persone, non solo in Toscana, ma in tutta la penisola, anche se con varianti che resteranno nei secoli.

Scrivere un’opera in volgare voleva dire rivolgersi alla gente comune, o per lo meno a coloro che erano in grado di leggere, ma che erano anche in grado di divulgare. Infatti la Commedia diventò “Divina” quando il passa parola dai colti signori ai popolani rivelò la trama “divina” di quel misterioso e affascinante viaggio che Dante aveva percorso nei tre regni dell’aldilà.

Il termine “Divina” viene usato per la prima volta da Giovanni Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante, scritto circa 40 anni dopo. (cfr. bibl. n. 18) Boccaccio non a caso è il continuatore di Dante, il suo deferente ammiratore che scriverà anche lui opere memorabili e conosciute in tutto il mondo (vedi il Decamerone), sempre in volgare, come il suo maestro.

Il suo volgare è naturalmente colto e raffinato a tal punto che scrive un’opera di 14.233 versi tutti in endecasillabe strutturate in terzine incatenate secondo il criterio ABA, BCB, CDC, ecc., è effettivamente un complesso mosaico arabescato di raffinate incisioni di scrittura classica ma in lingua volgare.

Una delle tante pennellate artistiche di Dante è la conclusione di tutte e tre le cantiche che terminano con la parola «stelle».

Nell’(Inferno: “E quindi uscimmo a riveder le stelle“;

Nel Purgatorio: “Puro e disposto a salir a le stelle“;

Nel Paradiso: “L’amor che move il sole e l’altre stelle“).

La Commedia è quindi realmente un’opera d’arte elegante e superba per la sua perfezione artistica. Un vero e proprio affresco quasi poetico di una intera epoca scritto con una perfezione letteraria maniacale.

Quando si cerca da qualche parte una descrizione della Divina Commedia, ovunque si parte dicendo che è un poema allegorico-didascalico: a scuola come in una enciclopedia. Ma dietro le allegorie e le didascalie, ovvero con lo scopo di insegnare, si celano i giudizi di un’epoca e di un uomo che ha vissuto intensamente quell’epoca e che di quei tempi è di fatto protagonista e prigioniero. Le condanne descritte nella Commedia, per eresia, accidia o superbia sono i giudizi di Dante o di quei tempi. Erano i gossip che circolavano sulle persone oppure solo pregiudizi che oggi sarebbero superati.

In ognuna di queste possibili interpretazioni c’è il fatto che questa è un’opera che ancora oggi fa discutere e che si dimostra moderna e attuale, usata da molti per giudicare questo o quel personaggio e spedirlo nell’Inferno o nel Paradiso dantesco, quasi fosse riferimento autonomo e non frutto di sacre scritture.

Il poema è diviso in tre parti, chiamate «cantiche» (Inferno, Purgatorio e Paradiso), ognuna delle quali composta da 33 canti (tranne l’Inferno, che contiene un ulteriore canto proemiale) formati da un numero variabile di versi, fra 115 e 160, strutturati in terzine.

Il poeta narra di un viaggio immaginario, ovvero di un Itinerarium mentis in Deum, attraverso i tre regni ultraterreni che lo condurrà fino alla visione della Trinità.

La sua rappresentazione immaginaria e allegorica dell’oltretomba cristiano è un culmine della visione medievale del mondo sviluppatasi nella Chiesa cattolica. (cfr. bib. n. 23)

Dante quindi racconta di aver percorso i tre regni dell’oltretomba durante l’equinozio di Primavera a partire dalla notte tra il 7 e l’8 aprile del 1300, l’anno del primo Giubileo indetto dal papa Bonifacio VIII, e di averlo portato a termine alla mezzanotte del giorno 14 dello stesso mese.

Al poeta sono occorsi: un giorno e una notte per attraversare la ‘selva oscura’; un giorno e una notte per percorrere l’Inferno; una notte e un giorno per risalire dal centro della terra alla spiaggia del Purgatorio; tre notti, tre giorni ed un’altra metà di giorno per risalire la montagna del secondo regno e, infine, 24 ore per visitare i Cieli del Paradiso.

Quanto tempo Dante abbia impiegato a scrivere la Commedia e in quali anni l’abbia scritta invece non è ancora noto con certezza. Si suppone che abbia iniziato a scrivere la Commedia dopo la morte di Arrigo VII[23] nel 1313, mentre altri studiosi ritengono che abbia iniziato la stesura del poema molto prima, fra il 1304 e il 1307. Sembra però certo che Dante abbia scritto il “Convivio” e il “De vulgari eloquentia fra il 1304 e il 1306, quindi la data del 1307 sembra la più probabile per l’avvio della stesura della Commedia.

L’Inferno dovrebbe essere stato concluso prima del 1309, mentre il Purgatorio dovrebbe essere stato concluso fra il 1313 e il 1314. Dedicando il primo canto del Paradiso a Cangrande della Scala[24] si suppone che la stesura sia iniziata intorno al 1316 e sia proseguita per tutti gli ultimi anni della sua vita.

Il richiamo forse più sintetico e didascalico della Commedia di Dante lo produce proprio Niccolò Tommaseo nella sua prefazione all’opera nell’edizione per la casa editrice Barion (cfr. bibl. n.2). Riportiamo di seguito le ultime pagine:

            “Non è qui bisogno discorrere del poema e della testura o de’ fini. I personaggi mitologici che in esso appariscono, o sono simboli, o Dante li tenne storici: Anteo, Mirra, Achille, Ulisse, Capanèo, Sinone, Rifeo, Diomede.

             Della storia antica hai Adamo, Raab, Davide, Ezechiele, Catone, Curione, Trajano, Costantino, Giustiniano, Maometto.

            De più recenti, nell’inferno, Niccolò III e Celestino V papi, Catalano e Loteringo e Guido di Montefeltro, frati, Brunetto Latini, Rusticucci, Aldobrandi, Guidoguerra, Ciampolo, Bertrando del Bornio, Alberti, Bocca degli Abati, Ugolino, cittadini più o men rinomati, con altri quattordici e quindici oscuri.

             Di donne storiche l’Inferno ha sola Francesca, trattata con amorosa pietà: Il Purgatorio, Pia e Sapia, e, come simbolo, Matilde. Ivi sono due Papi, Martino IV, pappone, e Adriano V, avido d’oro; un abate degli scaligeri, accidioso; molti signori e re, Ugo Capeto, Manfredi, Nino, Malaspina, uno de’ Santafiore; cittadini notabili, meno che nell’Inferno: Del Cassero, Guido del Duca, Ranieri da Calboli, Marco. Ma molti i cari al poeta: Casella, Belacqua, Buonconte, Oderigi, Forese, Buonagiunta e Guido Guinicelli, poeti d’Italia, Arnaldo di Provenza.

             Il Paradiso ha tre donne, Piccarda, Costanza, Cunizza; di moderni al poeta non hai che Romeo, il pellegrino, Carlo Martello, il figliol di Carlo II di Puglia, che fu re di Ungheria, e fin dal 1289 aveva in Firenze veduto Dante e postogli affetto; e il trisavolo Cacciaguida.

             Le digressioni di storia e di scienza non mancano: nell’Inferno solo una, dell’origine della città di Mantova, forse per rendere onore a Virgilio: così come quella del vigesimo secondo del Purgatorio, in memoria di Stazio, un de’ poeti a Dante diletti.

             Ma nella seconda cantica i tocchi geografici non son forse rapidi assai: e nella terza, la dissertazione sulle macchie della luna è a pompa d’ingegno e di stile. Ma quello che nei XVIII del Purgatorio è toccato dell’amore, e nel Paradiso dell’inviolabilità del voto, del merito della Redenzione, delle facoltà innate, della sapienza di Salomone, de’ giudizii temerarii, della predestinazione, della salute eterna de’ Pagani, delle virtù teologiche, del peccato di Adamo, essenziale del sacro poema.

             Il Bettinelli, tranne poche terzine, il resto avrebbe buttato via: l’Alfieri trascritto ogni cosa. I più si fermarono nell’Inferno, e non videro come le bellezze della seconda Cantica fossero più pure e più nuove, della terza meno continue ma più intense, e, dopo la Bibbia, le più alte cose che si siano cantate mai.

             Gli ammiratori lo calunniarono: chi fa di lui un altro Maometto, chi un libero muratore, chi un deputato francese de’ meno regi. Il Ginguené[25] volle la visione tutta quanta di invenzione sua: e pochi, se questo fosse, l’avrebbero intesa, nessuno sentita.

             Il Monti[26] lo loda nel dire le cose per perifrasi, ch’è lode direttamente opposta di quella che gli dava a miglior diritto il Rousseau[27]: il Perticari[28] lo fa nemico della sua lingua materna: gl’interpreti gli danno del loro mille astuzie ingegnosette, di quelle che sono l’unica suppellettile de’ mediocri.

             Ma Dante le tradizioni religiose, popolari, scientifiche del suo tempo ha con riverenza raccolte: ogni suo concetto informò del presente e del passato: mai rinnegò l’alta fede de’ padri suoi: fin laddove egli fulmina i preti indegni, all’autorità che lor viene dall’alto s’inchina.

             Le circonlocuzioni fugge: e va quasi sempre per la via spedita: e attesta egli stesso, che mai la rima lo trasse a dire altro da quel ch’e’ voleva: e pone per norma dell’arte, che sempre la veste poetica debba coprire un’idea vera o viva.

             Della sua lingua materna nulla immutò: ma trascelse.

             E fu poeta grande, perché seppe con vincoli possenti congiungere natura ed arte, meditazione e dottrina, il sentimento suo e l’italiano, il culto del bello e del retto, la passione è l’amore del vero.” (Niccolò Tommaseo)

  

 

Le altre opere del Sommo Poeta

 

Il Fiore

 

Lo Dio d’amor con su’arco mi trasse

Perch’i’ guardava un fior che m’abbellia,

Lo quale avea piantato Cortesia

Nel giardin di Piacer; e que’ vi trasse

Il Fiore è un poemetto, così chiamata nel 1881 da Fernand Castets[29] che ne fu il primo editore, ha diviso gli studiosi circa la sua reale ascrivibilità a Dante; si tratta di 232 sonetti che sono una vera e propria traduzione del Roman de la Rose[30], in particolar modo il tema della battaglia politica che contrappose, nella seconda metà del XIII secolo, il clero secolare agli Ordini Mendicanti.

I personaggi sono in realtà personificazioni allegoriche di Vizi o Virtù (Gelosia, Castità, Vergogna, Paura, Schifo, Ragione, Venus, Amore, ecc.); la vicenda erotico-amorosa è quella dell’Amante che cerca di cogliere il Fiore nel castello di Bellaccoglienza e che sarà aiutato oppure ostacolato da vari personaggi; ognuno di quelli che abbiamo scelto, cioè Amico, Falsembiante e la Vecchia dedica un gran numero di sonetti, di cui abbiamo presentato una piccola scelta esemplificativa, a perorare la propria causa: Amico (sonetti LVI-LVIII-LXIII) insegna come ottenere dalle donne quello che si vuole, anche ingannandole, Falsembiante (sonetto CI) rivela l’ipocrisia insita in tutte le classi sociali; la Vecchia (sonetto CXLVI), mentre rimpiange la propria giovinezza svanita, invita Bellaccoglienza a non pensare solo all’amore ma anche ai soldi.

Gli ultimi tre sonetti, affabulatori, raccontano l’ultima fase, quella più importante e conclusiva, della vicenda erotica.

 

CCXXX

Pe più volte fallì’ allui ficcare,

Perciò che ‘n nulla guisa vi capea;

Ella scarsella c[h]’al bordon pendea,

Tuttor di sotto la facea urtare,

Credendo il bordon me’ far entrare;

Ma già nessuna cosa mi valea.

Ma a la fine i’ pur tanto scotea

Ched i’ pur lo facea oltre passare:

Sì ch’io allora il fior tutto sfogl[i]ai,

E la semenza ch’i’ avea portata,

Quand’ eb[b]i arato, sì lla seminai.

La semenza del fior v’era cascata:

Amendue insieme sì lle mescolai,

Che molta di buon’ erba n’è po’ nata.

 

Il linguaggio erotico e senza pudori era tipico di quell’epoca del tardo medioevo, soprattutto negli scritti francesi. Se si paragona con il ben più famoso Decamerone, ci si rende conto come l’opera del Boccaccio fosse casta, perché non troverete alcuna parola sconcia o volgare al contrario dei testi d’oltralpe.

 

Detto d’Amore

Poemetto di cui sono pervenuti 2 frammenti di 480 settenari, pubblicato per la prima volta, con questo titolo, nel 1888. È stato attribuito al medesimo autore del Fiore che autorevoli Dantisti come Parodi e Contini hanno riconosciuto essere opera di Dante. E proprio le minori qualità artistiche di quest’ultimo sono il principale argomento di coloro che negano l’attribuzione.

 

Amor sì vuole, e par-li,

Ch’i’ ‘n ogni guisa parli

E ched i’ faccia un detto,

Che sia per tutto detto,

Ch’i’ l’ag[g]ia ben servito.

 

Po’ ch’e’ m’eb[b]e ‘nservito

E ch’i’ gli feci omaggio,

I’ l’ò tenuto o·maggio

E ter[r]ò giamà’ sempre;

 

 

Le Rime

Le Rime sono un gruppo di liriche composte da moderni editori i quali riuniscono la produzione dantesca e legate alle varie esperienze esistenziali e stilistiche di Dante.

Non si tratta di un canzoniere organico costruito dal poeta secondo un disegno, ma di una serie di componimenti molto diversi, raccolti e ordinati successivamente dai critici moderni.

Tale raccolta riunisce il complesso della produzione lirica dantesca dalle prove giovanili sino a quelle dell’età matura.

All’interno delle Rime sono state fatte confluire tutte le liriche di Dante non comprese nella Vita nova o nel Convivio, e riunite secondo determinati nuclei tematici che evidenziano un diverso stile poetico dell’autore: abbiamo così le ‘liriche giovanili’ che si richiamano a Guittone d’Arezzo, quelle ‘stilnoviste’ il cui modello è rappresentato da Guinizelli[31] e Cavalcanti, le ‘rime nove’ che presentano un allontanamento dal modello stilnovistico, le liriche della tenzone con Forese che si richiamano alla poesia comico-realistica, le canzoni dottrinali e, infine, le così dette rime ‘petrose’ caratterizzate dall’asprezza dello stile e dedicate alla crudele donna Pietra.

 

Vita Nova

Databile tra il 1294 e il 1296 la Vita nova è un prosimetro dove, all’interno dei 42 capitoli di cui è composta (o 32 secondo l’edizione di Guglielmo Gorni), si alternano 31 liriche.

L’opera, di soggetto autobiografico, ruota attorno alla figura di Beatrice e all’amore che Dante ha nutrito nei suoi confronti, dal primo incontro alla mirabile visione che convincerà il poeta a parlare della donna amata come mai è stato fatto da alcun uomo.

Dante racconta che il suo primo incontro con Beatrice avvenne quando entrambi avevano nove anni, numero che, nella interpretazione numerologica, identifica il miracolo. Da quel momento il poeta è preso d’amore per lei.

I due giovani si rivedono nove anni dopo: Beatrice gli rivolge un cortese saluto.

Estasiato da questo incontro, il poeta si ritira nella solitudine della sua stanza e fa uno strano sogno: in una nube color fuoco gli appare un uomo di aspetto terribile che tiene fra le braccia Beatrice, avvolta in un drappo sanguigno. A lei l’uomo dà in pasto un cuore ardente e, rivolgendosi a Dante, pronuncia le parole: “Vide cor tuum“.

Dante si risveglia e compone il sonetto “A ciascun alma presa e gentil core” che invia a tutti i poeti d’amore. Ad esso risponde il primo dei suoi amici, Guido Cavalcanti e da questo momento inizia la profonda amicizia che legherà i due poeti per tutta la vita.

Il successivo evento fondamentale della vicenda d’amore di Dante è l’episodio della “Donna dello Schermo”.

Dante rivede Beatrice in Chiesa, ma, per timore che altri si accorgano della sua attenzione per lei, volge lo sguardo ad un’altra donna, che fa da schermo alla verità del suo amore.

Questa donna deve poi allontanarsi da Firenze e Dante è costretto a cercare un altro “schermo” ai suoi sentimenti. Questo atteggiamento viene però frainteso da Beatrice, che lo priva del saluto.

Addolorato, egli si trova di nuovo solo nella sua camera ed ha un altro sogno: Amore gli appare nelle sembianze di un giovane rivestito di abiti candidi e lo rimprovera per le attenzioni rivolte alle donne-schermo, suggerendogli di narrare in versi il suo vero amore.

Il poeta comprende che il suo amore per Beatrice trascende ogni manifestazione concreta, sia pur tenue come il saluto.

La donna diventa, così, colei che è stata mandata “da cielo in terra a miracol mostrare”, cioè una creatura angelica inviata da Dio sulla terra per ricondurre gli uomini al bene.

Accade poi che Dante sia condotto da un amico là dove molte donne gentili si trovano riunite. Alla vista di Beatrice fra loro, Dante non può dissimulare il suo profondo turbamento ed è per questo schernito dalle altre donne che lo interrogano sul significato del suo amore. Dante replica dicendo che la beatitudine del suo sentimento sta in “quelle parole che lodano” la sua donna.

Dopo la morte del padre di Beatrice si fa strada, nella riflessione di Dante, la possibilità della morte di Beatrice stessa, che sopravviene in breve.

Una donna gentile, impietosita del dolore del poeta, gli appare spesso solidale con la sua sofferenza e si fa strada nel suo cuore, ma egli è di nuovo visitato da un sogno, in cui gli pare di vedere Beatrice nella sua gloria celeste, giovane come quando l’ha incontrata la prima volta. Distoglie allora vergognoso il pensiero dalla donna gentile che ha risvegliato il suo desiderio e si propone di non parlare più di Beatrice se non quando potrà farlo in modo del tutto adeguato ai suoi meriti. (cfr. bibl. n.25)

“In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: “Incipit vita nova”. Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d’assemplare in questo libello; e se non tutte, almeno la loro sentenzia.”

 

Convivio

È un’opera mista di prosa e poesia in versi, scritta in volgare, di tipo filosofico-dottrinale che Dante dovrebbe aver scritto nei primi anni del suo esilio, tra il 1304 e il 1308.

Dante aveva previsto di scrivere 15 trattati, ma ne completerà solo quattro. Si tratta quindi di un’opera incompiuta.

Il primo trattato è introduttivo e i restanti sono scritti in forma di prosimetro allo scopo di dare conoscenza filosofica a tutti coloro che sono desiderosi di sapere ma che non possono avvicinarsi alla cultura dei dotti.

Anche in questa opera, o almeno nelle intenzioni, Dante ribadisce il principio che scrivere in volgare serve a rivolgersi a chi dotto non è ma che ha sufficiente curiosità e brama di sapere delle cose della vita e della scienza.

Il termine ‘convivio’ deriva dal latino convivium e può essere tradotto come banchetto, simposio. L’opera è quindi una mensa («convivio»), che offre ai partecipanti (ovvero a coloro che hanno desiderio di sapere e conoscere) una difficile pietanza («vivanda»), accompagnata dal pane, il quale ne faciliterà l’assimilazione. Alla vivanda corrisponderanno le canzoni, mentre al pane i vari commenti esplicativi.

La prosa del Convivio è caratterizzata da uno stile argomentativo lucido e razionale, che passa in rassegna grandi temi filosofici del tempo (cosmologia, metafisica, politica, etc.), intrisi di aristotelismo, allo scopo di formare un’opera enciclopedica che contenga in teoria tutto lo scibile umano. (da Wikipedia)

  “Sì come dice lo Filosofo nel principio de la PrimaFilosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta, è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti.”

De vulgari eloquentia

Questa è un trattato scritto da Dante in latino fra il 1303 e il 1305. L’opera, essendo scritta in latino è rivolta alle persone dotte proprio per rivendicare l’importanza e la bellezza dell’uso della lingua volgare.

Anche questa è un’opera incompiuta. Dante infatti aveva programmato quattro libri ma ne scrisse soltanto il primo e parte di un altro, fermandosi al capitolo XIV del secondo.

L’opera si apre con una metafora: Dante dichiara che userà il suo “ingegno e gli scritti e la cultura di altri” per riempire una coppa così grande e per mescerne un dolcissimo idromele.

Il tema centrale dell’opera è l’eloquenza della lingua volgare: nel trattare la materia in maniera esaustiva ed enciclopedica, Dante mette al centro la ricerca di un volgare illustre, ovvero quel volgare che possa assumere i caratteri di lingua letteraria all’interno del variegato panorama linguistico italiano.

“Appresso, già vicino a la sua morte, compose un libretto in pro-sa latina, il quale egli intitulò De vulgari eloquentia. E come che perlo detto libretto apparisca lui havere in animo di distinguerlo e diterminarlo in quattro libri, o che piú non ne facesse da la mortesoprapreso, o che perduti siano gli altri, piú non ne apparisconoche i dui primi.”

 Da “La vita di Dante” di Giovanni Boccaccio

 

 

De Monarchia

Altra opera di dante scritta in latino probabilmente fra il 1313 e il 1318, anche se taluni la attribuiscono agli ultimi anni della sua vita fra il 1320 e il 21.

Con questo testo il poeta volle intervenire su uno dei temi più “caldi” della sua epoca: il rapporto tra il potere temporale (rappresentato dall’imperatore) e l’autorità religiosa (rappresentata dal papa).

Ormai è noto quale fosse il punto di vista di Dante su questo problema, poiché durante la sua attività politica egli aveva lottato per difendere l’autonomia del Comune fiorentino dalle pretese temporali di papa Bonifacio VIII. (da Wikipedia)

 

 

Le Epistole e l’Epistola XIII a Cangrande della Scala

Si tratta di tredici epistole scritte in latino poi suddivise in due sillogi[32] raccolte da autori diversi.

Delle innumerevoli epistole scritte da Dante, che il Filelfo dice di avere personalmente avute sotto mano, solo tredici sono giunte fino a noi. Tra queste, la più importante è l’epistola XIII con la quale Dante dedica la terza Cantica della Commedia a Cangrande della Scala e che illustra il soggetto del poema (l’anima dell’uomo dell’aldilà) ed il suo scopo (indicare al genere umano la via dell’eterna felicità).

 

Egloghe

Si tratta di una corrispondenza poetica che Dante ha intrattenuto con Giovanni del Virgilio il quale aveva chiesto al poeta fiorentino di scrivere in latino un poema epico, così da estendere la sua gloria anche tra gli intellettuali. Con la prima egloga Dante risponde che egli non avrebbe rinunciato alla natura del suo fare poesia e con la seconda prende congedo dal del Virgilio che lo invitava nella sua dimora. Molte sono stati i dubbi avanzati dagli studiosi sulla autenticità delle Egloghe che Dante avrebbe scritto tra il 1320 e gli ultimi mesi della sua vita.

La Quaestio de aqua et terra

Riconosciuta essere opera di Dante, la Quaestio de aqua et terra è un trattato condotto secondo la struttura della quaestio filosofica in uso nella Scolastica. Il tema dell’opera venne esposto da Dante a Verona nel 1320: esso consisteva nella determinazione delle cause facenti sì che il globo terrestre non sia ricoperto dalle acque ma presenti una parte abitabile di terra emersa.

 

  

Il “fiorentino” la lingua di Dante

Molti si domandano se Dante parlava effettivamente il “fiorentino” o il “toscano”, ovvero quel dialetto ancora oggi parlato nella sua città, oppure se quella parlata, con la “C” e la “T” aspirate, con vocaboli originali che nelle altre regioni sono desueti oppure sconosciuti, ma che troviamo nelle sue opere e nei vocabolari della lingua italiana.

È difficile dirlo, ovviamente perché non abbiamo notazioni dell’epoca che ci riportano queste peculiarità del dialetto fiorentino, ma una cosa è certa: Dante parlava una lingua caratteristica perché Farinata degli Uberti[33] nel Canto X dell’Inferno riconosce Dante dal suo dialetto.

  1. O Tosco, che per la città del foco

Vivo ten vai così parlando onesto,

Piacciati di ristare in questo loco.

 

  1. La tua loquela ti fa manifesto

Di quella nobil patria natio,

Alla qual forse fui troppo molesto. –

 

In queste due terzine ci sono molte risposte alla domanda “se il fiorentino era la lingua di Dante”.

Prima di tutto Farinata lo riconosce per l’accento (“O Tosco”) e poi lo riconosce come fiorentino (“la tua loquela ti fa manifesto – di quella nobil patria natio”). Bisogna ricordare che Farinata in esilio sarà a Siena, dove il toscano è forse oggi il più simile al fiorentino, ma che da questo si distingue, e probabilmente già allora si distingueva. Infatti lo apostrofa come Tosco (Toscano), ma poi lo identifica come fiorentino. Quindi distingue già il toscano dal fiorentino, così come è oggi.

Inutile poi citare le innumerevoli parole oggi desuete molte delle quali ancora usate in Toscana e abbandonate nelle altre regioni. Dai doppi pronomi (es: gliene, glielo, …) ad avverbi come “costì” che persino l’Enciclopedia Treccani classifica come “tosc.” Citando poi: “Nel luogo dov’è la persona a cui si parla o scrive: E tu che se’ costì, anima viva, Pàrtiti da cotesti che son morti (Dante). In genere non differisce, anche per l’uso, da costà, ma indica luogo più vicino, sicché, parlando a due persone, s’adopera costì per la più vicina, costà per la più lontana. Come rafforzativo di codesto o cotesto: dammi cotesto libro costì (fuori di Toscana, solo con uso scherz.).” (cfr. bibl. n.24)

La citazione di Dante e l’ultima precisazione (“fuori dalla Toscana, solo con uso scherzoso”) collocano questa parola proprio come una parola della lingua di Dante.

 

a cura di

Claudio Del Lungo *

 

 

Nota per i lettori

Questo testo non ha alcuna ambizione se non lo scopo di raccogliere, in modo sintetico, alcuni aspetti della vita e delle opere di Dante Alighieri.

Si tratta di una selezione di studi, ricerche e testi, collezionati e analizzati e integrati fra loro, con alcune considerazioni personali ed analisi originali (per es: sul “fiorentino, lingua di Dante”).

La riproduzione del testo è “Fair use” con l’invito a citarne la fonte.

Sono ovviamente grato a tutti gli autori e alle fonti che sono citate nella bibliografia e sitografia.

Chi dovesse leggere fino in fondo questa sintetica biografia di Dante, e avesse osservazioni, integrazioni o valutazioni da sottopormi, sarà benvenuto. Potete inviarmi mail al seguente indirizzo: info@toscana.uno

Per approfondire la vita di Dante consiglio il libro citato in bibliografia del Prof. Alessandro Barbero (bibl. n.1)

 

 

*  Nato a Firenze nel 1957, residente in Toscana. Giornalista pubblicista iscritto all’albo nazionale dei giornalisti dal 1988.

 

 

Bibliografia e sitografia

 

 

 

NOTE

 

[1] Cacciaguida degli Elisei (Firenze, 1091 circa – Palestina, 1147-8 circa) è stato un cavaliere insignito della carica da Corrado III, ed ha partecipato alla II crociata. Infatti morì in terrasanta nel 1148. Dante Alighieri lo cita nella Divina Commedia (Paradiso, canti XV, XVI e XVII) per avallare la sua origine nobile. La ricostruzione genealogica infatti determinerebbe Cacciaguida come padre di Alighiero I (vissuto nel XII secolo), la cui discendenza fu Bellincione di Alighiero (?-1270 ca), padre di Alighiero II Alighieri di Bellincione (1220-1283 ca) a sua volta padre di Dante.

 

[2] Corrado III Hohenstaufen di Svevia (Bamberg 1093-1152) è stato il primo re tedesco e italiano della dinastia di Hohenstaufen. Era figlio di Federico I di Svevia e di Agnese di Waiblingen. Come Duca di Franconia alla morte di Enrico V di Franconia nel 1125 sostenne, senza successo, la candidatura del fratello Federico II duca di Svevia per l’elezione a re di Germania. Fu invece eletto Lotario II. In contrapposizione a quest’ultimo fu poi egli stesso eletto re d’Italia nel dicembre 1127 e incoronato a Monza l’anno successivo dall’arcivescovo di Milano Anselmo V Pusterla a sua volta per questo scomunicato da papa Onorio II. Corrado si arrese a Lotario II solo nel 1135. Dopo la morte di Lotario (dicembre 1137), Corrado fu eletto Re dei Romani a Coblenza nel marzo 1138, e poco dopo concesse diritto di zecca a tre città del nord Italia, prima a Genova (negli ultimi giorni del medesimo anno) e in seguito ad Asti e a Piacenza.

Nel 1146 Corrado, dopo aver ascoltato Bernardo di Chiaravalle predicare la Crociata, partì con Luigi VII per la Terrasanta. Corrado e il suo esercito viaggiarono via terra attraverso l’Ungheria causando distruzioni nei territori bizantini attraversati. Giunsero a Costantinopoli nel dicembre 1147, alla testa delle armate francesi.  Quindi, invece di seguire la costa, dove avrebbe incontrato territori abitati da cristiani, e dove fece transitare molti dei suoi non combattenti, Corrado guidò il suo esercito attraverso l’Anatolia. Nell’ottobre del 1148 le armi cristiane vennero sconfitte dai Turchi a Dorylaeum, nei pressi di Eskişehir. Corrado e molti dei suoi cavalieri scamparono, ma molti dei soldati appiedati furono uccisi o catturati. Corrado più tardi riuscì a raggiungere il regno crociato via mare da Costantinopoli.

Corrado non fu mai incoronato imperatore, e continuò a fregiarsi del titolo di Re dei Romani fino alla morte.

Egli stesso designò a succedergli il nipote Federico Barbarossa (figlio di suo fratello, Federico II duca di Svevia) piuttosto che il proprio figlio, mostrando così che l’ereditarietà degli uffici in linea diretta non si era affermata prima della successione familiare. Fonte: Wikipedia.

 

[3] Niccolò Tommasèo. – Scrittore (Sebenico 1802 – Firenze 1874). Nato in una famiglia di commercianti italiani, compiuti i primi studî nel seminario di Spalato, nel 1817 si trasferì per gli studî di legge a Padova, dove conobbe A. Rosmini. Nell’ambiente padovano, dopo il conseguimento della laurea (1822) e un breve soggiorno a Sebenico, iniziò la sua carriera di scrittore e pubblicista; si trasferì poi a Milano (1824-27), dove lavorò per l’editore Stella, si legò di devota amicizia ad Alessandro Manzoni (si vedano i Colloqui col Manzoni, post., 1928) e cominciò a collaborare all’Antologia (v.) di Giovan Pietro Vieusseux; quindi a Firenze, dove intensificò tale collaborazione, strinse amicizia con Gino Capponi ed ebbe una sofferta relazione amorosa con Geppina Catelli. Dopo la chiusura della rivista, causata in parte da un suo articolo-recensione che provocò il risentimento dell’ambasciatore d’Austria, scelse la via dell’esilio in Francia (1834), vivendo a Parigi, a Nantes e infine in Corsica; di qui, beneficiando di un’amnistia, rientrò in Italia (1839), fece ritorno a Sebenico e si stabilì per un decennio a Venezia. Fu un periodo d’intensa attività letteraria e anche politica. Imprigionato nel gennaio 1848 per le sue posizioni antiaustriache, liberato nel marzo, insieme a Daniele Manin, dal popolo insorto, fu ministro nel governo provvisorio, ambasciatore a Parigi e tra i più accesi protagonisti della difesa della Repubblica veneziana; caduta la quale si rifugiò a Corfù (1849). Nel 1854 tornò in Italia, stabilendosi a Torino e poi a Firenze (1859), dove morì nel 1874.  (da Enciclopedia Treccani)

 

[4] Folco Portinari (Portico di Romagna, 1222? – Firenze 31 dicembre 1289) è stato un banchiere italiano. Originario forse di Portico di Romagna, nell’Appennino forlivese, dove ancora oggi si può vedere il palazzo di famiglia dei Portinari, Folco fu priore di Firenze nel 1282 ed ebbe sei figlie di cui la più famosa fu Beatrice. Folco Portinari, fu guelfo di famiglia mercantile, ebbe importanti incarichi dirigenziali all’interno delle Arti corporative, e nella vita politica della Firenze duecentesca, come priore del sestiere di Porta San Piero. All’epoca tutti i tipi di guadagno finanziario erano visti come frutto dell’usura e quindi come testimonianze di un peccato che portava l’anima del reo alla dannazione; per questo non fu infrequente che questi grandi banchieri offrissero una parte del loro guadagni, prima della morte, in commissioni artistico-devozionali, opere di carità e investimenti per la propria città. Anche Folco nel 1285, secondo la tradizione convinto da Monna Tessa, la governante di famiglia, e incoraggiato dal vescovo Andrea dei Mozzi, decise allora di donare una cospicua parte della sua fortuna per la fondazione dell’Ospedale di Santa Maria Nuova, tuttora l’ospedale principale del centro di Firenze. Si trattava della sezione femminile nell’odierno complesso delle Oblate; nel 1288 l’ospedale occupò, con una sede maschile, la collocazione odierna sull’altro lato della strada.

 

[5] Brunetto Latini (Firenze, 1220 circa – 1294 o 1295) è stato uno scrittore, poeta, politico e notaio italiano, autore di opere in volgare italiano e francese. Brunetto (quasi sempre Burnetto nei documenti) era figlio di Buonaccorso e nipote di Latino Latini, appartenente ad una nobile famiglia toscana. La datazione approssimativa della nascita all’inizio degli anni Venti si desume dal fatto che nel 1254 ricoprì l’incarico di scriba degli anziani del comune di Firenze. Le fonti storiche e una serie di documenti autografi testimoniano la sua attiva partecipazione alla vita politica di Firenze. Come egli stesso narra nel Tesoretto, fu inviato dai suoi concittadini alla corte di Alfonso X di Castiglia, per richiedere il suo aiuto in favore dei guelfi. Tuttavia (sempre secondo il poemetto) la notizia della vittoria dei ghibellini a Montaperti (4 settembre 1260) costrinse Brunetto all’esilio in Francia. Qui dimorò per sette anni tra Montpellier, Arras, Bar-sur-Aube e Parigi, esercitando (come già a Firenze) la professione di notaio, come testimoniano gli atti da lui stesso rogati. I cambiamenti politici conseguenti alla vittoria di Carlo I d’Angiò a Benevento su Manfredi di Svevia consentirono il ritorno di Brunetto in Italia. Nel 1273 fu risarcito del torto subito, con il titolo di Segretario del Consiglio della repubblica, stimato ed onorato dai suoi concittadini. La sua influenza divenne tale che a partire dal 1279 si trova a malapena nella storia di Firenze un avvenimento pubblico importante al quale Brunetto non abbia preso parte. Nel 1280 contribuì notevolmente alla riconciliazione temporanea tra guelfi e ghibellini detta “pace del Cardinal Latino”. Più tardi (1284) presiedette il congresso dei sindaci in cui fu decisa la rovina di Pisa. Nel 1287 Brunetto Latini fu elevato alla dignità di Priore. Questi magistrati, in numero di dodici, erano stati previsti nella costituzione del 1282. La sua parola si faceva frequentemente sentire nei Consigli generali della repubblica. Era uno degli arringatori, od oratori, più frequentemente designati. Conservò integre le sue facoltà anche in età avanzata e morì nel 1294 (come scrive il Villani) o nel 1295 (come affermato da altre fonti), lasciando una figlia, Bianca Latini, che nel 1248 aveva sposato Guido Di Filippo De’ Castiglionchi. La tomba di Brunetto Latini è stata ritrovata nella chiesa di Santa Maria Maggiore di Firenze, ed è segnalata da un’antica colonnetta nella cappella a sinistra dell’altare maggiore. Nel Canto XV dell’Inferno Dante lo incontra tra i sodomiti, violenti contro Dio nella natura. Siamo nel terzo girone del settimo cerchio; Dante e Virgilio camminano su un piano rialzato rispetto alla landa desolata in cui i dannati procedono. Dante, che era stato allievo di Brunetto, è profondamente scosso, e non nasconde verso il maestro una persistente ammirazione. Brunetto è il primo nell’opera a toccare fisicamente il poeta, tirandolo per la veste.

[6] Ser Manetto Donati (Firenze ? – Firenze ?) esponente dei Donati, una delle più importanti famiglie guelfe fiorentine. Viene ricordato soprattutto per essere stato il suocero di Dante Alighieri. Importante uomo politico, negli anni ’80 e ’90 del XIII secolo Manetto ebbe vari incarichi da parte della Signoria. Nel 1280, fu tra i promotori della pace tra guelfi e ghibellini fiorentini, mentre nel 1290 fu nominato vicario della Lega di Valdisieve. Nominato nel 1303 podestà di Colle Val d’Elsa, si prodigò nell’aiutare il genero Dante con vari sussidi in denaro sia quando era ancora a Firenze (si ricorda un prestito del 1297), sia durante la prima fase dell’esilio. Di Manetto ignoriamo sia la data di nascita, che quella della morte.  (CFR bbliogr/sitogr. 2, 15)

 

[7] Corso Donati detto il Grande Barone o il Barone Superbo è nato a Firenze intorno al 1250 da Simone Donati e Contessa, detta “Tessa“, la cui casata non è nota. Aveva tre fratelli, Forese, Maso e Sinibaldo, e due sorelle, Ravenna e Piccarda. Fu a capo della fazione dei “donateschi“, chiamati poi “guelfi neri“, fu un uomo facinoroso e fiero, soprannominato anche Il Barone per i suoi modi inclini al motteggio e all’offesa. Verso la fine del XIII secolo, dopo essere rimasto vedovo, fece una promessa di matrimonio con Tessa Ubertini, imparentata con i Cerchi da parte di padre, ma negò un’eredità che spettava alla donna ai suoi parenti, creando il primo motivo di inimicizia tra Cerchi e Donati. Il matrimonio avvenne nel 1296, ma già nel 1302 egli si risposò per la terza volta con una figlia di Uguccione della Faggiola. Nel 1289 partecipò con i fiorentini (guelfi) alla battaglia di Campaldino, contro gli aretini (ghibellini) risultandone il vero protagonista: al comando delle riserve pistoiesi guidò senza aver ricevuto alcun ordine, la carica contro il fianco destro dello schieramento avversario in quel momento in procinto di prevalere sui fiorentini, provocando la rotta del nemico e garantendo la vittoria di Firenze. Fu esiliato dai Bianchi nel 1299, ma tornò trionfalmente in città nel 1301 con l’aiuto di Papa Bonifacio VIII, riprendendo i suoi vecchi modi da “barone” e cercando di trarre il massimo profitto dalla sua vittoria e aspirando al governo della città, tanto da inimicarsi i suoi stessi compagni del partito dei Neri. Nel 1304 uscì indenne da un attentato. Nel 1308 la signoria lo condannò assieme a Gherardo Bordoni come ribelle e traditore. Un moto spontaneo della folla lo costrinse a fuggire precipitosamente dalla città il 6 ottobre, mentre il popolo saccheggiava le sue case. Inseguito, nella fuga cadde da cavallo rimanendo però impigliato in una staffa: fu così raggiunto dai suoi nemici che lo finirono presso San Salvi. Fu raccolto dai frati vallombrosani e sepolto nell’attigua chiesa. Corso Donati fu favorito in un arbitrato che lo vedeva contrapposto alla madre della sua seconda moglie Tessa, Giovanna Ubertini, da parte del magistrato Baldo d’Agugliano. Dante lo citò indirettamente senza riportarne il nome nel Purgatorio (Canto XXIV, v. 82-87) attraverso una profezia fatta recitare da suo fratello Forese Donati e in cui lo destina all’Inferno. In quei versi è stato notato un certo compiacimento del poeta per la triste sorte dell’avversario.

[8] La battaglia di Campaldino si combatté l’11 giugno 1289 fra i guelfi, prevalentemente fiorentini, e ghibellini, prevalentemente aretini.

 

[9] Giano Della Bella (Firenze, seconda metà del XIII secolo 1240? – Francia, prima del 19 aprile 1306) è stato un politico italiano, importante figura della Repubblica di Firenze nella seconda metà del Duecento. Apparteneva ad una nobile famiglia fiorentina di fede guelfa. Mercante e residente nel Sesto di Porta S. Piero, quasi sicuramente si iscrisse all’arte di Calimala.

Principale esponente dei Della Bella, una delle più antiche famiglie nobili ghibelline della città di Firenze, si era fatto guelfo e popolano per ragioni politiche. Egli divenne il “paladino” dei ceti più popolari della città, capeggiando la rivolta contro i “magnati” del 1292.

Scrisse di lui Dino Compagni: “I nobili e grandi cittadini insuperbiti faceano molte ingiurie a’ popolani […]. Onde molti buoni cittadini popolani e mercatanti, tra’ quali fu un grande e potente cittadino (savio, valente e buono uomo, chiamato Giano della Bella, assai animoso e di buona stirpe, a cui dispiaceano queste ingiurie) se ne fe’ capo e guida” (Cronica, Libro I, XI).

Divenuto priore riuscì a far emanare dal gonfaloniere di giustizia Baldo Ruffoli i cosiddetti Ordinamenti di Giustizia (promulgati il 18 gennaio 1293) che rappresentarono la più importante riforma della Repubblica dai tempi dell’abolizione del sistema consolare. Con questi provvedimenti i “Magnati” ovvero i nobili di antica tradizione feudale e latifondista venivano esclusi dal governo della città in favore del nascente ceto borghese, obbligando, tra le altre cose, per essere eleggibili alle cariche politiche l’iscrizione a un’Arte. Il cosiddetto “popolo magro” composto dagli strati più bassi e poveri della società (salariati, braccianti, piccoli dettaglianti) era comunque ancora escluso, non esistendo Arti che comprendessero le loro categorie (si dovrà aspettare fino all’avvento del Duca di Atene nel 1343).

Bonifacio VIII mandò a Firenze Jean de Chalons (Gian di Celona), che forse avrebbe dovuto uccidere Giano, ma per paura del popolo, stando a quanto riporta il Compagni, si preferì evitare il delitto. Venne però indetta una congiura che mettesse Giano contro il popolo stesso, che riuscì a far crescere lo scontento attorno alla sua figura, tanto che fu scacciato di lì a poco in giorni tumultuosi con sommosse di piazza e combattimenti.

Nel 1294 fu podestà di Pistoia e in seguito i suoi ordinamenti vennero revisionati nel 1295, anche se di fatto rimasero il vigore. Egli è il protagonista dei primi capitoli della Cronica di Dino Compagni ed è citato anche da Dante Alighieri (Pd. XVI, 127-132).

 

[10] Gli Ordinamenti di Giustizia furono leggi mirate a indebolire pesantemente le famiglie aristocratiche fiorentine in favore del nascente ceto mercantile, dalla ricchezza ormai solida e in cerca di una maggior peso politico.

Premettendo che i nobili di allora (cavalieri e feudatari con titoli di origine medievale) erano soggetti bellicosi e non portati di natura al governo delle cose pubbliche, li escluse da qualsiasi pubblico ufficio, ponendo come condizione necessaria all’eleggibilità l’iscrizione ad una delle Arti di Firenze.

Inoltre, tra i vari provvedimenti, si stabilì che quando un nobile commetteva un crimine, la sua pena poteva essere raddoppiata. Negli anni queste norme vennero mitigate nella pratica, ma comunque rimasero sulla carta. Il loro rispetto era garantito dal sistema delle corporazioni delle Arti, che controllavano la politica cittadina. (da Wikipedia)

 

[11] Guido Cavalcanti (Firenze ?, 1258 – Firenze, 29 agosto 1300) è stato un poeta e filosofo italiano del Duecento. Guido Cavalcanti, figlio di Cavalcante dei Cavalcanti, si ritiene nato a Firenze intorno all’anno 1258 in una nobile famiglia guelfa di parte bianca, che aveva le sue case vicino a Orsanmichele e che era tra le più potenti della città. Nel 1260 Cavalcante, padre del poeta, fu mandato in esilio in seguito alla sconfitta di Montaperti. Sei anni dopo, in seguito alla disfatta dei ghibellini nella battaglia di Benevento del 1266, i Cavalcanti riacquistarono la preminente posizione sociale e politica a Firenze. Nel 1267 a Guido fu promessa in sposa Beatrice, figlia di Farinata degli Uberti, capo della fazione ghibellina. Da Beatrice, Guido avrà i figli Tancia e Andrea.

Nel 1280 Guido fu tra i firmatari della pace tra guelfi e ghibellini e quattro anni dopo sedette nel Consiglio generale al Comune di Firenze insieme a Brunetto Latini (cfr Nota n. 6) e Dino Compagni. Secondo lo storico Dino Compagni, a questo punto avrebbe intrapreso un pellegrinaggio a Santiago di Compostela. Pellegrinaggio alquanto misterioso, se si considera la fama di ateo e miscredente del poeta. Il poeta minore Niccola Muscia, comunque, ne dà un’importante testimonianza attraverso un sonetto.

Il 24 giugno 1300 Dante Alighieri, priore di Firenze, fu costretto a mandare in esilio l’amico, nonché maestro, Guido con i capi delle fazioni bianca e nera in seguito a nuovi scontri. Cavalcanti si recò allora a Sarzana; si pensa che la celebre ballata Perch’i’ no spero di tornar giammai sia stata composta durante l’esilio.

Il 19 agosto venne revocata la condanna per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Il 29 agosto morì, pochi giorni dopo essere tornato a Firenze, probabilmente a causa della malaria contratta durante l’esilio.

È ricordato – oltre che per i suoi componimenti – per essere stato citato da Dante (del quale fu amico assieme a Lapo Gianni) nel celebre nono sonetto delle RimeGuido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io (al quale Guido rispose con un altro, mirabile, ancorché meno conosciuto, sonetto, che ben esprime l’intenso e difficile rapporto tra i due amici: S’io fosse quelli che d’amor fu degno). Dante lo ricorda anche nella Divina Commedia (Inferno, canto X e Purgatorio, canto XI) e nel De vulgari eloquentia, mentre Boccaccio lo cita nel Commento alla Divina Commedia e in una novella del Decameron.

 

[12] Dino Compagni nacque intorno al 1246/1247 da una famiglia guelfa che faceva parte del cosiddetto “popolo grasso” fiorentino (la ricca borghesia) e che aveva una posizione di primo piano nell’Arte di Por Santa Maria, trasformatasi poi in Arte della Seta. Egli stesso fu uno dei dirigenti di questa Arte (dal 1282 al 1295 ne fu più volte console). Si schierò contro i nobili a sostegno di Giano della Bella e ricoprì la carica di gonfaloniere di giustizia. Caduto Giano della Bella nel 1295, si dovette allontanare per qualche anno dalla vita politica. Vi rientrò nel 1300 appoggiando i Bianchi e la famiglia dei Cerchi, in lotta contro i Neri e la famiglia Donati. Come Dante, fu preso da entusiasmo alla notizia della discesa di Enrico VII in Italia, vedendo in essa l’occasione di una rivincita dei Bianchi e di una soluzione equilibrata dei problemi della città. Concepì allora la Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, scritta infatti fra il 1310 e il 1312, e rimasta interrotta quando Enrico VII morì presso Buonconvento. L’interruzione è stata spiegata con il fallimento del progetto di una riscossa dei Bianchi a Firenze e dei ghibellini in generale in Italia. A questo punto l’opera manoscritta, che conteneva duri giudizi su personaggi ancora vivi e potenti, rimase nascosta in casa di Dino (morto nel 1324) e dei suoi discendenti, e fu scoperta solo nella seconda metà del Quattrocento.

Compagni rifiuta il disegno della storia universale e il procedimento annalistico e si concentra sugli anni fra il 1280 e il 1312 e in particolare sulle vicende degli anni 1300-1308, segnati dal conflitto fra Bianchi e Neri e dalla vittoria di questi ultimi e di Carlo di Valois. Egli dichiara di voler testimoniare solo “il vero delle cose certe” rifacendosi a quanto ha direttamente visto e sentito oppure a quanto gli è stato detto da persona degna di fede. Tuttavia la sua Cronica è opera di parte, piena di passioni e di risentimenti morali e politici: l’autore non esita a dichiarare le proprie posizioni attraverso apostrofi ai cittadini o la rappresentazione a tinte fosche e drammatiche delle malvagità degli avversari politici e del loro capo, Corso Donati. La struttura dell’opera “rivela la continua alternanza tra il resoconto e la riflessione moralistica, tra il fatto oggettivamente narrato e l’addolorato sentenziare in forme di monologo” (Petrocchi). I fatti non vengono indagati nei loro presupposti sociali ed economici o comunque nell’oggettività delle loro cause, ma spiegati come conseguenza di atteggiamenti psicologici e morali dei protagonisti. D’altra parte, la memoria degli avvenimenti è ancora calda e viva, e conferisce alla pagina della Cronica l’immediatezza di un diario.

Il più importante studioso di Dino Compagni fu Isidoro Del Lungo, che difese l’autenticità della Cronica da un ampio movimento di studiosi, tra cui il filologo Pietro Fanfani, autore di Dino Compagni vendicato dalla calunnia di scrittore della Cronaca e di altri numerosi scritti, che aveva inteso dimostrarne la falsità.

 

[13] Carlo di Valois o, in francese Charles de Valois (Valenciennes, 12 marzo 1270 – Nogent-le-Roi, 16 dicembre 1325) è stato conte di Valois dal 1286, per matrimonio fu inoltre Conte di Angiò e del Maine dal 1290, inoltre anche conte d’Alençon dal 1291 e conte di Chartres dal 1293 alla sua morte. Fu inoltre Imperatore consorte titolare dell’Impero Romano d’Oriente dal 1301 al 1308 e re titolare d’Aragona dal 1283 al 1295. Era il terzogenito del re di Francia Filippo III e di Isabella d’Aragona e quindi fratello del re di Francia, Filippo IV. Carlo è l’iniziatore della dinastia Capetingia cadetta dei Valois che regnò sulla Francia a partire dal suo stesso figlio, Filippo VI. (da Wikipedia)

 

[14] Questo non sarà l’unico intervento dei francesi contro Firenze. È infatti da ricordare il successivo assedio di Arrigo VII nel 1312, nel quale Dante ripose le sue ultime speranze di ritornare nella sua città, e quello del 1529-1530 ad opera di Carlo V d’Asburgo, il quale, a seguito di pressioni del papa Clemente VII (Giulio di Giuliano de’ Medici) assediò la città, pur con scarso entusiasmo, per ristabilire la famiglia Medici sul trono Ducale.

[15] Giovanni Boccaccio (Certaldo, giugno o luglio 1313 – Certaldo, 21 dicembre 1375) è stato uno scrittore e poeta italiano. Conosciuto anche per antonomasia come il Certaldese, fu una delle figure più importanti nel panorama letterario europeo del XIV secolo.

 

[16] San Godenzo è un comune della provincia di Firenze nell’Appennino Tosco-Romagnolo dell’alta Valdisieve sulla strada che porta al Passo del Muraglione.

 

[17] Scarpetta Ordelaffi (… – 1315) signore di Forlì dal 1295 alla morte. Figlio di Teobaldo Ordelaffi, secondo Dino Compagni, nel 1302, era vicario per la Chiesa a Forlì. Nel 1295, partecipò alla riunione dei capi del partito ghibellino in Romagna ad Argenta.  Nel 1296, come capitano generale dei ghibellini della Romagna contro le truppe pontificie, prese parte all’assedio di Imola, atto che gli valse la scomunica, insieme a tutta la sua famiglia ed a Maghinardo Pagani. Fu anche a capo della fazione dei guelfi bianchi di Firenze. In questa veste tentò di ottenere il ritorno degli esuli cacciati da Firenze dai Neri, organizzando, in qualità di capo dei ghibellini, la spedizione che si concluse con la seconda sconfitta del Mugello nel 1302. Tra i fuoriusciti vi era anche Dante, che Scarpetta ospitò nel 1303, dandogli anche un lavoro come segretario.

 

[18] Bartolomeo I della Scala (1270 ?… – Verona, 7 marzo 1304) è stato un condottiero italiano. Bartolomeo fu signore di Verona tra il 1301 ed il 1304. Fu il figlio primogenito di Alberto I della dinastia scaligera e di Verde di Salizzole (1241-1306) dama di famiglia nobile veronese.

[19] Nei primi di gennaio del 1313 arrivò a Poggibonsi, memore della fedeltà alla causa ghibellina dei suoi abitanti, qui dopo avere ricevuto le chiavi della città, iniziò la costruzione di un nuovo insediamento sul sito dell’antica Poggio Bonizio, ribattezzandola Monte Imperiale.

[20] Circa 70 anni dopo anche Santa Caterina da Siena alzerà forte la voce per il rientro del papa a Roma. Anzi, lei si recò persino ad Avignone per incontrare il papa Gregorio XI esortandolo a rientrare a Roma. Anche la sua autorevole e rispettata voce nella Chiesa risultò vana per il rientro del papa a Roma che, fra papi ed antipapi, avvenne soltanto nel 1423, ben 109 anni dopo la lettera di Dante e 43 dopo la morte di Santa Caterina.

 

[21] Guido Novello da Polenta (1275 circa – 1333) fu un nobile e poeta italiano, podestà della città di Ravenna dal 1316 al 1322.

[22] Giovanni del Virgilio nacque a Bologna (o a Padova) da famiglia padovana in un anno anteriore al 1300. È stato un poeta, grammatico e latinista italiano vissuto a cavallo tra il XIII e il XIV secolo celebre per aver intrattenuto una relazione epistolare con Dante Alighieri.

[23] Enrico VII di Lussemburgo (tedesco Heinrich; in lingua volgare Arrigo; Valenciennes, 1275 – Buonconvento, 24 agosto 1313) è stato conte di Lussemburgo, re di Germania dal 1308, re dei Romani e imperatore del Sacro Romano Impero dal 1312 alla morte, primo imperatore della Casa di Lussemburgo. Durante il suo breve regno rafforzò la causa imperiale in Italia, divisa dalle lotte partigiane tra le fazioni guelfa e ghibellina, e ispirò i componimenti di lode di Dino Compagni e Dante Alighieri. Tuttavia, la sua morte prematura impedì il compimento dei suoi propositi. La sua discesa in Italia (1311) incontrò l’ostilità di papa Clemente V, Filippo IV di Francia e Roberto d’Angiò, re di Napoli. (da Wikipedia)

[24] Can Francesco della Scala detto Cangrande I (Verona, 9 marzo 1291 – Treviso, 22 luglio 1329) è stato un condottiero italiano. Figlio di Alberto I della Scala e di Verde di Salizzole, è l’esponente più conosciuto, amato e celebrato della dinastia scaligera. Signore di Verona dal 1308 al 1311 insieme al fratello Alboino e da solo dallo stesso anno fino alla morte, consolidò il potere della sua famiglia ed espanse quello della sua città fino a divenire, grazie ai suoi successi, guida della fazione ghibellina. Cangrande non fu solo un abile conquistatore, ma anche uno scaltro politico, un accorto amministratore e un generoso mecenate, noto infatti anche perché fu amico e protettore del Sommo Poeta Dante Alighieri (che, in una lettera, gli dedicò l’ultima cantica della Divina Commedia). Tra i suoi amici si annovera anche Spinetta Malaspina il Grande di Fosdinovo. (da Wikipedia)

 

[25] Pierre-Louis Ginguené (Rennes, 25 aprile 1748 – Parigi, 11 novembre 1815) è stato un letterato, storico, critico musicale, politico francese.

 

[26] Vincenzo Monti (Alfonsine, 19 febbraio 1754 – Milano, 13 ottobre 1828) è stato un poeta, scrittore, traduttore, drammaturgo e accademico italiano.

 

[27] Jean-Jacques Rousseau (Ginevra, 28 giugno 1712 – Ermenonville, 2 luglio 1778) è stato uno scrittore, filosofo e musicista svizzero nato da un’umile famiglia calvinista di origine francese.

 

[28] Giulio Perticari (Savignano sul Rubicone, 5 agosto 1779 – San Costanzo, 26 giugno 1822) è stato un poeta e scrittore italiano.

[29] Fernand Castets: (29.4.1838 – 1911-21?) Uomo di lettere e politico. – È stato professore di lettere e letteratura straniera e preside della Facoltà di Lettere di Montpellier, città di cui è stato consigliere comunale e sindaco, repubblicano. Ottenuto un premio dall’Accademia di Francia e anche il premio Montyon.

 

[30] Il Roman de la Rose (in italiano Romanzo della Rosa) è un poema allegorico di 21.780 octosyllabes (in italiano, nel computo della atona dopo la tonica finale di verso, novenario) ritmati scritto in due parti distinte, da due diversi autori e a distanza di 40 anni. L’opera fu iniziata nel 1237 da Guillaume de Lorris, che ne scrisse 4.058 versi. In seguito, essa fu ripresa e completata, con più di 18.000 versi, da Jean de Meun tra il 1275 e il 1280. Il successo fu immenso, tanto che il testo fu uno dei più copiati per tutto il Medioevo: di esso, ci rimangono oggi all’incirca 300 manoscritti. (da Wikipedia)

 

[31] Guido di Guinizello di Magnano, più noto come Guido Guinizelli ma da alcuni citato come Guido Guinizzelli (Bologna, 1237 – Monselice, 1276), è stato un poeta e giudice italiano. Poeta di grande novità rispetto alla precedente Scuola siciliana e a quella toscana, è considerato l’iniziatore e l’inventore del Dolce stil novo, la corrente letteraria italiana del XIII secolo di cui la sua canzone Al cor gentil rempaira sempre amore è considerata il manifesto ufficiale. Anche se la sua biografia mantiene zone d’ombra, Guinizelli occupa un posto di rilievo nella storia della letteratura italiana; la sua produzione lirica fu molto apprezzata dai contemporanei e dallo stesso Dante Alighieri, che non esitò a dichiararlo, con ammirazione e commozione, padre suo e quindi maestro, nel canto XXVI del Purgatorio. È anche noto come giullare, che faceva divertire gli ammalati donando loro un po’ di sorriso e affetto. (da Wikipedia)

[32] Una silloge (dal greco συλλογή) è una raccolta antologica di scritti letterari, storici o giuridici, di uno o più autori. (da Wikipedia)

[33] Manente degli Uberti, figlio di Jacopo, noto come Farinata degli Uberti per via dei suoi capelli color biondo platino (Firenze, 1212 circa – Firenze, 11 novembre 1264), è stato un nobile e condottiero fiorentino, appartenente ad una tra le famiglie fiorentine più antiche e importanti. A capo dei Ghibellini nel 1248 favorisce la cacciata dei Guelfi da Firenze con il sostegno di Federico II di Svevia e di suo figlio Federico d’Antiochia. Con la morte di Federico II nel 1250 le sorti politiche di Firenze si ribaltarono e nel 1251 furono gli Uberti a dover abbandonare la città per rifugiarsi in esilio a Siena. Furono proprio loro ad essere protagonisti della sconfitta di Firenze ad opera dei senesi a Montaperti il 4 settembre 1260, ancora oggi ricordata dai cittadini che vivono all’ombra della Torre del Mangia. Citato da Dante nel VI canto dell’Inferno tra i fiorentini “ch’a ben far puoser li ‘ngegni” e incontrato successivamente nel canto X tra gli eretici, in particolare tra gli epicurei che non credono in un’esistenza dopo la morte. Fu sepolto nella Cattedrale di Santa Reparata, dove successivamente fu costruito il Duomo di Firenze. Anche dopo morti gli Uberti dovettero subire un’ulteriore vendetta da parte della fazione rivale dei guelfi: infatti nel 1283, 19 anni dopo la sua morte, i corpi di Farinata e sua moglie Adaleta subirono a Firenze un processo pubblico per l’accusa (postuma) di eresia. Per l’occasione i loro resti mortali, sepolti all’epoca nella chiesa fiorentina di Santa Reparata, vennero riesumati per la celebrazione del processo, conclusosi poi con la condanna, da parte dell’inquisitore francescano Salomone da Lucca. Quindi tutti i beni lasciati in eredità da Farinata vennero confiscati agli eredi. (da Wikipedia – bibl. N.22)

 

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